«Per tessere una tela servono due fili: l’ordito teso sul telaio e la trama, legata a una spoletta, che corre attraverso l’ordito. Lo stesso vale per un racconto». A partire da questo principio, Hélène Châtelain scriveva del suo documentario del 1996 sull’anarchico ucraino Nestor Makhno nell’articolo apparso sul numero della rivista «L’Homme et la société» intitolato Cinéma engagé, cinéma enragé ovvero cinema impegnato, cinema arrabbiato. Solo così, alternando la «trama» del film con riflessioni teoriche sulla memoria, la regista districava il fitto intreccio tra storia e leggenda, immagini e parole, mito e illazioni da cui il film lasciava emergere la figura del rivoluzionario che ossessionava tanto lei quanto Armand Gatti, suo compagno e complice di una vita. Vent’anni prima, infatti, Châtelain, Armand e Stéphane Gatti avevano realizzato con gli operai immigrati della Peugeot di Montbéliard la straordinaria serie di film Le lion, sa cage et ses ailes proprio all’insegna di una frase di Makhno: «Proletari di tutto il mondo, immergetevi nel più profondo di voi stessi, cercate lì la verità, createla voi perché non la troverete da nessun’altra parte».

HÉLÈNE CHÂTELAIN è scomparsa sabato scorso all’età di 85 anni e ricostruirne la figura significa tener presente, anche nel suo caso, l’intreccio di un ordito di parole con una trama di immagini. È stata attrice di teatro e cinema; regista di circa trenta film su temi come il carcere, il gulag, l’immigrazione; montatrice, sceneggiatrice, studiosa e traduttrice dal cinese ma soprattutto dal russo al francese. Tra i suoi autori: Cechov, Pasternak e più recentemente Vassili Golovanov per la collana di letteratura russa Slovo che dirigeva presso le edizioni Verdier.
È difficile riassumere la complessità della vita e dell’opera di una donna che visse più volte, proprio come il personaggio iconico che interpretò ne La Jetée (1962) di Chris Marker. Lì, il suo volto ossessionava un sopravvissuto alla Terza Guerra Mondiale che, rinchiuso nei sotterranei di una Parigi post-atomica, grazie a quel ricordo compiva un vertiginoso viaggio nel tempo.Il teatro era stata la sua prima passione e come attrice aveva lavorato al Théâtre National Populaire sotto la direzione di Georges Wilson recitando Brecht, Euripide, Armand Gatti. L’incontro con quest’ultimo segnò l’inizio di una collaborazione fertilissima.

DEL 1964 è Chant public pour deux chaises électriques, ambizioso progetto teatrale su Sacco e Vanzetti rappresentato contemporaneamente in diverse città del mondo da un numero cospicuo di personaggi che presentano una moltitudine di versioni della messa a morte dei due anarchici italiani il cui destino finisce per diventare l’emblema di una irriducibile solitudine umana. «In quel progetto trovai una confluenza molto violenta tra un linguaggio politico e un linguaggio poetico di cui sentivo personalmente un bisogno profondo. Perché il mio percorso politico l’ho fatto molto più a partire dalla P di poetica che dalla P di politica», dichiarava nel 1978 ai «Cahiers du cinéma». Del 2003 è il documentario con lo stesso titolo della pièce in cui Châtelain ne mostra l’allestimento del settembre 2001 a Los Angeles, in piena crisi post Torri gemelle, con 40 interpreti tra attori (pochi) e non attori (la maggior parte), senza tetto e diseredati di ogni provenienza.

DALLA FINE degli anni ’60, i tanti progetti con Gatti ruotano attorno al nodo centrale di ogni lotta rivoluzionaria: le parole, la poetica. «Scrivo per cambiare il passato», diceva Gatti, per cui libertà significava poter decidere non solo della propria vita ma del proprio lascito. Ed è accogliendo la parola di lavoratori e disoccupati immigrati del borgo operaio di Montbéliard che tra il 1975 e il 1976 nasce, tra mille fatiche, Le lion, sa cage et ses ailes. Sei «videogrammi» più prologo ed epilogo dedicati ciascuno a una diversa comunità (polacca, marocchina, spagnola, georgiana, iugoslava, italiana) per un totale di quasi sei ore di immagini. Un’opera che non racconta la Classe Operaia ma una realtà operaia lontana dalla sua mitizzazione e segnata dall’esilio. Châtelain, che allora aveva già realizzato alcuni film e collaborato con Paul e Carole Roussopoulos, gira e vive per sei mesi con la comunità che partecipa anche criticamente all’opera. Gatti dirà: «Fu un’esperienza in cui l’apprendimento della fratellanza diventava scrittura». Al termine delle riprese Hélène passa due anni in sala di montaggio alternandosi con Stéphane Gatti: lui lavora di giorno e lei di notte. Il risultato è «straordinario, qualcosa di mai visto prima in cui le 3 P (Poeta, Partigiano, Proletario) lottano contro le 3 P (Peugeot, Potere, Produzione)», scrive Jean-Paul Fargier sui «Cahiers».

NEL 1978, il suo impegno libertario la porta a organizzare con Michel Foucault l’incontro al teatro Récamier tra esponenti della nuova sinistra francese e dissidenti russi. A dissenso e repressione in quella Russia che per lei era uno «spazio-tempo», Châtelain ha dedicato molto del suo cinema realizzando, in particolare, il corposo Gulag (2000) con Iossif Pasternak, dittico che esplora il sistema del terrore negli anni ’20-’30 e negli anni ’30-’50 in due luoghi simbolo dell’«arcipelago gulag»: il bacino del Kolyma e le isole Soloveckie. Con lei se ne va un altro lembo di quel Novecento che ha creduto nell’essenza politica, e collettiva, della sperimentazione poetica.