«Farà un gran rumore» scriveva Heine all’amico Laube presentandogli nell’autunno del 1842 il suo poemetto lirico-satirico Atta Troll, da pubblicare a puntate sulla «Zeitung für die elegante Welt». La provocazione ebbe un successo insperato e Heine poté vantarsi di tutte le «mele marce che gli erano volate sulla testa» insieme alla sanguinosa accusa di essere diventato un reazionario. Come tutte le grandi opere dei tedeschi – scrive l’autore nella caustica prefazione –, dal duomo di Colonia al Dio di Schelling, anche Atta Troll, con i suoi perfetti trochei ottosillabici, è destinato a rimanere un arabesco erratico nella sua caleidoscopica ricchezza. Vi si canta la tragicomica avventura dell’orso Troll che danza alla catena di un lestofante provvisoriamente ravveduto e un bel giorno fugge per unirsi ai suoi figlioli e ammaestrarli con arringhe altisonanti, nutrite di ascetismo e puritanesimo; per Heine non sono certo le parole a garantire la libertà e, così, il domatore, insieme all’ambiguo Laskaro, uccidono questo «orso di tendenza», pessimo ballerino ma pieno di «carattere», mentre la sua compagna accetterà allegramente la prigionia.

In questo manifesto politico ed estetico, Troll ha il compito gravoso di mettere alla berlina gli ex compagni di lotta e poesia della Giovane Germania trascinati in un confronto serrato tra moralisti, stantii e ascetici, come Börne, Wirth, Herweg e soprattutto Freiligrath, e un radicale che non vuole rinunciare a essere poeta e, tra sensualità, umanità e rancore, vorrebbe importare «già sulla terra il regno dei cieli».

Del resto l’orso danzante era già stato tirato in ballo per ogni tipo di critica politica: secondo Lessing era un servile e passivo cortigiano, per Pfeffel (in un anno ‘movimentato’ come il 1789) rappresenta la borghesia vessata che, uccidendo domatore, scatena la rivoluzione. Troll invece è tanto incapace di dar vita a una rivolta che Marx e Engels lo usano nell’epistolario come moneta corrente per svalutare «i democratici tedeschi piccolo-borghesi».

Eppure, malgrado la sua attualità di metà Ottocento, Atta Troll è un viaggio poetico eccitato e stravolto, oscuro e simbolico quanto basta per consentire la sopravvivenza di alcuni frammenti romantici in un universo isolato, geniale e spietato come quello di Heine nell’esilio francese: lo scrive il poeta affidando all’amico Varnhagen questo «ultimo libero/ silvestre canto romantico!», lo confermano le fonti – dal Cid a Herder, al ‘maestro’ Schlegel –, la maniera bizzarra e sognante del racconto in versi con strofe di lirica sublime e quell’ironia che si trasforma in dileggio dando uno spazio umoristico e umorale ai chiassosi enigmi del giorno.

Questa costruzione è in realtà la trincea di «Heine l’individualista» contro l’accusa di voler rinnegare la causa della libertà mentre invece, scrive Adorno nel dolente saggio La ferita Heine, la sua idea ‘leggera’ di rivoluzione si proietta rigorosa verso una società senza costrizioni né rinunce.

Dichiarando guerra al patriottismo della vuota retorica, alle sterili discussioni, alla invadenza delle ricette buone per tutti, Heine difende così le ragioni del poeta e il senso del suo impegno politico contro la rozza (animalesca) tendenziosità dell’orso e la sua inumana serietà. E proprio con questo poema così vario di stili e contenuti, così aperto alla riflessione e alla interpretazione dimostra cosa voglia dire verità e libertà perché, per Heine, solo nella disposizione creativa dell’uomo fioriscono i pensieri e le azioni che trasformano il mondo: un tema che non ha abbandonato, nel tempo e su sponde diverse, i sognatori del cambiamento.

La esemplare nuova traduzione di Fabrizio Cambi con un apparato che permette di seguire il labirintico percorso del poeta restituisce in Atta Troll Sogno di una notte d’estate (edizioni Leucotea, pp. 199, € 17,90) un’opera che non vuole invecchiare a dispetto delle stagionate traduzioni e della polvere delle biblioteche, che l’avevano resa mestamente inattuale.