Facciamo un grande salto temporale all’indietro, al «mondo di ieri», all’era prima della caduta del Muro di Berlino e della fine del socialismo reale: alla Mostra di Venezia del 1984 venne presentato Heimat – Eine deutsche Chronik (Heimat. Una cronaca tedesca), il film-monstre (15 ore e mezzo di durata, per la precisione 924 minuti) del regista tedesco Edgar Reitz, subito accolto da una trionfale ovazione internazionale, subito definito un autentico capolavoro. Questo fluviale «requiem europeo della piccola gente» è, ora, riuscito sul mercato italiano nella versione restaurata 4K in dvd per la Viggo ma è anche visibile in streaming sulla piattaforma Chili. Le undici puntate originali sono diventate sette parti, la tecnologia digitale ha permesso di realizzare immagini impossibili con l’analogico degli anni Ottanta (e forse qui con una qualche forzatura), sono stati fatti dei piccoli aggiustamenti e alleggerimenti di montaggio – questi i principali interventi che contraddistinguono la presente «director’ cut», risultato eccellente di molti anni di complesso lavoro.

L’ampio lasso temporale ormai passato ci permette – fatta la tara dell’attualità e in un’epoca come la nostra dominata dalla serialità tv – di valutare ed apprezzare come si deve questa Heimat dove sfilano sessantatré anni di Storia tedesca, dal 1919 al 1982, dalla fine della Prima guerra mondiale, passando per la Repubblica di Weimar, il nazionalsocialismo, la Seconda guerra mondiale, l’era Adenauer per arrivare alle soglie della riunificazione delle due Germanie. La quale Storia viene ricostruita a partire da un punto di vista periferico, da Schabbach un immaginario villaggio dell’Hunsrück (la piccola e montagnosa regione natale del regista Edgar Reitz, tra la Saar e il Reno, ai confini con la Francia) e viene narrata attraverso le minute vicende private di due famiglie con al centro la figura di una contadina, Maria, e dei suoi tre figli.

Opera mastodontica (5168 tra attori e comparse; una lavorazione durata cinque anni e mezzo) non soltanto per una lunghezza inusuale e praticamente ingestibile, dato che all’epoca era stata pensata per il prioritario sfruttamento nelle sale, qui si rivive per l’ultima volta la follia creativa che aveva reso grande il movimento del «Nuovo Cinema Tedesco» (NCT), quello, tanto per intenderci, a cui sono appartenuti Alexander Kluge, Werner Herzog, Wim Wenders, Margarethe von Trotta e tanti altri.

Heimat però – con il senno di poi possiamo ora dirlo con una ragionevole certezza – segna anche, in qualche modo, il superamento dell’ideologia dominante nel NCT: in primis per lo spostamento dall’ambiente urbano a quello rurale del plot e dell’ambientazione del film, e poi, per una diversa, forse meno traumatica riconsiderazione della identità nazionale dei tedeschi – il grande problema con cui si era confrontata la prima generazione post-bellica con il suo atteggiamento di rivolta morale contro le orribili colpe dei padri. Verso la metà degli anni Ottanta si affaccia, infatti, in questo serial un senso della vita che in un certo senso sembra prevedere un possibile (ma all’epoca impensabile se non nella fantascienza) sviluppo della politica tedesca. Perché tra le righe si ipotizza che la «Heimat», cioè il luogo natio possa sostituirsi al «Vaterland», alla «patria» di matrice nazionalista e conservatrice, lasciando baluginare la speranza che sia possibile essere insieme cittadini di Schabbach e cittadini del mondo. Il che postula, tendenzialmente, la riacquisizione di una memoria che senza dimenticare il tremendo passato e l’Olocausto possa guardare in avanti a un futuro diverso.

Senza cercare di caricare Heimat di troppo espliciti significati profetici, comunque il film di Edgar Reitz si lascia alle spalle gran parte della cultura antagonista del «NCT» di cui il regista, insieme all’amico Alexander Kluge, è stato uno degli iniziatori. Il problema dell’identità scissa e della rimozione del passato, il trauma della repressione e del terrorismo della RAF, la paura come senso dominante del quotidiano, si sono insomma ricomposti in una Weltanschauung di segno più conciliatorio. Un plus certamente in prospettiva ma che implica anche un inaspettato minus, perché dopo Heimat e dopo l’unificazione, la cinematografia tedesca ha perso, salvo qualche rada eccezione, la sua più genuina carica vitale e la capacità artistica di far parlare di se stessa fuori dai propri confini geografici.

Comunque sia, in questa grande, epica saga familiare – incontro fortunato di Storia e di molteplici storie personali – sono confluite molte delle ossessioni di Edgar Reitz, oltre alla memoria della cinematografia tedesca degli anni Trenta (il titolo è lo stesso di un melò del 1938 con la cantante/attrice Zarah Leander) oppure quella del «Heimat film» dell’era Adenauer con le sue ingenue tematiche popolar-contadine. Né mancano molte suggestioni comuni ad altri autori del NCT, per esempio a Rainer Werner Fassbinder, tipo la centralità delle figure femminili o la ricerca di una riflessione metafisica come nell’ultima parte (La festa dei vivi e dei morti) che ricorda l’epilogo di Berlin Alexanderplatz.

Sostanzialmente basato su due figure archetipe, colui che parte e colui che resta, il «sognatore» e il «realista», Heimat si contraddistingue per un modulo di apparente semplicità narrativa contradetta di continuo dall’alternanza «casuale» (talvolta più, talvolta meno), del bianco&nero con il colore, nonché dalla disarticolazione nella costruzione lineare dei molteplici personaggi (in gran parte interpretati da non-professionisti) che lo popolano. Pur conservando la tipica struttura direzionata e a «grappolo» del serial familiare tv, il film di Reitz se ne distanzia per l’esuberanza e la qualità cinematografica dell’impianto visivo (splendida la fotografia di Gernot Roll) o per la ricercatezza dell’impasto sonoro con il colorito uso dei dialetti (ovviamente perduto nel doppiaggio italiano).

In una riuscita sintesi tra cinema e televisione, Reitz ha così proseguito e coronato il cammino di precedenti grandi opere «anfibie» del NCT, ad esempio Hitler, un film dalla Germania di Hans Jürgen Syberberg (1977) oppure il già citato Berlin Alexanderplatz (1980 in 14 episodi, serial comunque pensato per la sola tv) diretto da Rainer Werner Fassbinder. Ma a loro differenza non ha scelto come osservatorio privilegiato della sua analisi (e autoanalisi) né un elemento simbolico (Hitler, la città di Berlino) né un testo letterario. Qualche caduta di tono soprattutto nelle puntate finali dove gli intrecci delle storie si avvicinano al presente e più evidente si fa l’ispirazione autobiografica, non compromettono il raffinato valore complessivo di Heimat che ancor oggi regge il confronto con la migliore serialità del presente.

Poi, com’è noto Edgar Reitz, ha continuato la sua saga con fortune alterne realizzando due sequel: nel 1992 Heimat 2 – Cronaca di una giovinezza (sempre molto notevole) e nel 2004 Heimat 3 – Cronaca di una svolta epocale (forse la meno riuscite delle tre serie); infine nel 2013 ha chiuso il tutto con un prequel, L’altra Heimat – Cronaca di un sogno, gran finale di una eccezionale epopea visiva. Le altre tre parti attendono il loro restauro – in attesa, si ammiri questo primo inizio anche per chi abbia già avuto il modo di vederlo e apprezzarlo a suo tempo.