Heddy Honigmann è una delle più celebrate cineaste in attività. Nata a Lima all’inizio degli anni Cinquanta da padre austriaco e madre polacca, entrambi ebrei, ha presto lasciato il Perù per la sua formazione, trascorrendo un breve periodo in Israele, passando per la Francia e l’Italia e finendo per stabilirsi definitivamente in Olanda tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Il cinema l’ha studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Per questo l’italiano è nella lista delle molte lingue che la regista conosce, e ancora di più, è certo anche per questo che è possibile vedere il suo cinema come un ramo forte e vitale cresciuto distante da una radice autenticamente rosselliniana.

Il festival di Biarritz dedica quest’anno a Heddy Honigmann il focus sul cinema del Benelux, mostrando alcuni dei suoi film più recenti, tra i quali spicca il suo ultimo No hay camino, del 2021. In inglese si sarebbe potuto scrivere latest al posto di ultimo, e l’espressione più chiara avrebbe evitato un triste e tuttavia pertinente possibile fraintendimento. Honigmann, che da molti anni condivide la sua vita con la sclerosi multipla, si è vista diagnosticare qualche tempo fa un tumore non curabile. In questo contesto è venuta al suo storico produttore Pieter Van Huystee – che tra i molti illustri, ha prodotto anche un altro grande documentarista olandese, Johan Van Der Keuken – la proposta da parte di una televisione di mettere in cantiere un ritratto della regista peruviana diretto da un collega. Citando i magistrali e fondamentali autoritratti dei due eccelsi Rembrandt e Van Gogh, il produttore ha convinto la committenza a lasciare che fosse la stessa Honigmann a realizzare un film su di sé e sul proprio lavoro.

Il titolo di questo inconsueto diario cinematografico autodiretto viene da un verso del poeta spagnolo Antonio Machado («Caminante no hay camino, se hace camino al andar»), evocato nel film durante l’incontro con l’amico Josè Luis Guerin per trovare un’eloquente insegna poetica al lavoro della regista sul suo nuovo cimento e una sintesi del percorso esistenziale e artistico che Heddy Honigmann ha condotto fin qui.

La regista – che nel corso della sua carriera ha diretto anche film a soggetto con attori professionisti, ma che ha consacrato il suo nome principalmente legandolo all’impegno sul fronte del cinema documentario – per la prima volta entra tanto esplicitamente e direttamente al centro dell’inquadratura senza per questo rinunciare al suo ruolo né al suo metodo. Fin dal principio infatti compare sia come regista che dirige l’operatore e i suoi coprotagonisti sia come soggetto del film; subito dopo un incipit quasi programmatico, l’incontro con Guerin serve soprattutto a dichiarare l’ancora totale incertezza su cosa sarà il film che è già cominciato, lasciando che lo sguardo di Honigmann costantemente distratto dal mondo fuori campo sia l’immagine rappresentativa di un cinema poroso, aperto, teso in una ricerca.

Il seguito immediato è un ritorno in Perù, un ripasso delle foto di famiglia accanto alla sorella , una cena intorno a una tavolo con molti degli amici e collaboratori che hanno contribuito alla galleria dei ricordi più vividi di Honigmann. E si ripresenta inevitabile il confronto con il ricordo del padre Victor, illustratore e fumettista, ebreo sopravvissuto al campo di Mauthausen e finito esule in Latino America, segnato, indurito e in un certo modo avvelenato per sempre dalla violenza e dall’orrore; nonostante l’amore profondo per la figlia, anche una delle principali cause della giovinezza apolide della regista, tanto quanto, ancora più cruciale, la radice culturale ed emotiva del suo rapporto con le immagini e anche con il cinema (varrebbe la pena dedicare uno studio a parte alla relazione tra le ossessioni del padre Victor, disegnatore raffinato e fumettista di satira sociale, e l’idiosincrasia di Heddy, la figlia, per l’uso simbolico delle immagini, il rifiuto della critica sociale come scopo e argomento del suo cinema, e più di tutto la necessità di cercare – oltre la memoria, la malinconia, la testimonianza – ragioni concrete di speranza).

Come in tutti i suoi film precedenti, anche in questo i luoghi sono orizzonte non indifferente e cassa di risonanza, legati semanticamente oltre che emotivamente agli esseri umani posti al centro delle immagini. Così il viaggio in Perù non è solo una collezione d’incontri, ma anche una teoria di sopralluoghi, di riattraversamenti del tempo attraverso lo spazio. Anche in questo caso gli interlocutori non sono intervistatori né intervistati, ma l’altra sponda di colloqui o «conversazioni», come le ama definire la regista; solo che qui il baricentro è spostato su di lei e sono gli altri a dover stimolare ed evocare.

In uno di questi scambi la scrittrice Kristin Hemmerechts viene invitata a recitare una poesia dell’autore peruviano Cesar Vallejo (la poesia, la pittura, la musica, le arti attraversano e irrorano nel profondo tutti i film di Heddy Honigmann come la più viva e feconda materia prima da far trasformare alla macchina cinema): è Massa, in essa il cadavere di un combattente seguita a morire nonostante moltitudini sempre più esorbitanti di uomini vengano a implorarlo di restare in vita (e alla fine, ma questo nel film non c’è, il cadavere accetta di rialzarsi abbracciando il primo che gli aveva chiesto il ritorno alla vita).

Torna in mente il discorso incrociato di due dei molti memorabili protagonisti di Forever, forse il più complesso e più maturo di tutti i film di Heddy Honigmann, che spiegano – passando da Ingres a Modigliani – quanto il realismo non esista, e sia la forma, la trasfigurazione che l’artista/autore imprime alla sua materia, a prevalere. Un operatore di tanatoprassia fisiologicamente incapace di piangere, riferendosi al Modigliani, dice che in realtà «tutti i suoi modelli, tutti questi volti sono degli specchi: non gli interessa la fedeltà del ritratto, ma quello che il modello trasmette, quello che egli sente mentre dipinge».

Così, alla fine – dopo il lirico e fulminante corto che Guerin le dedica come contributo al suo film-testamento -, può chiedersi perché fa film, rispondendosi «non lo so», dopo aver raccontato, in uno specchio capovolto, tante delle persone che hanno avuto un significato e un ruolo nella sua vita attraverso il suo proprio sguardo; trovando in questo montaggio di riflessi la forma più giusta per un suo autoritratto.

Per l’ennesima volta il cinema di Heddy Honigmann si presenta in una forma che troppo facilmente viene travisata – anche nel caso la si esalti -, scambiandola per naturalismo, per cinema del sentimento, della parola e del contenuto. Al contrario, oggi come sempre, Honigmann – chissà quanto direttamente riecheggiando la lezione rosselliniana – fa un cinema essenziale, complesso e rigoroso, antropocentrico e antropomorfo, umanistico e poetico, lieve e densissimo, che cerca un senso trovando immagini.