«Questa lettera principalmente per informarvi che la guerra è finita, e io ne sono uscito illeso», scriveva Anthony Hecht, poco più che ventenne, il 14 maggio 1945, da un’imprecisata località della Germania, ai genitori a New York; aggiungendo: «Illeso [Unscathed], naturalmente, non significa inalterato [unaffected]. Le cose che ho visto e sentito qui, parlando con tedeschi, francesi, cechi e russi, oltre alle mie osservazioni personali, messe assieme fanno una storia che eccede di gran lunga i limiti della censura regolamentare». Il riferimento, necessariamente ellittico, è alla scoperta e liberazione, da parte del battaglione in cui Hecht serviva, del campo di lavoro e di sterminio di Flossenbürg, nella foresta bavarese. Masticandone la lingua, il giovane Hecht era stato incaricato di interrogare i prigionieri francesi sopravvissuti, quelli cui restava un filo di forza per parlare, al fine di raccogliere prove contro i direttori del campo: «Quel luogo, quelle sofferenze, i racconti dei prigionieri, erano inimmaginabili», avrebbe ricordato, ancora mezzo secolo più tardi. «Per anni, in seguito, mi sono svegliato urlando».
In uno dei suoi ultimi aforismi (vado a memoria, al momento non riesco a trovarlo), Elias Canetti prendeva atto, con stupore più che con sollievo, di avere attraversato il Novecento senza mai essere stato torturato. Potrebbe essere un’epigrafe a buona parte dell’opera di Anthony Hecht (1923-2004), così controllata – forse fin troppo levigata – nei virtuosismi dello svolgimento (la sua padronanza delle forme è degna del più intricato poeta barocco) com’è brutale nella durezza delle vicende inscenate. Aggredito, non tanto dall’orrore, quanto dal racconto dell’orrore – illeso ma marchiato da una sofferenza di cui è stato testimone per lo più indiretto –, Hecht ha scritto alcune poesie d’una bellezza agghiacciante, una crudeltà radiosa, quasi in esibito conflitto coi suoi stessi versi: The contemplation of horror is not edifying, / Neither does it strenghten the soul: «La contemplazione dell’orrore non è edificante, / né fortifica l’anima».
Penso, ad esempio, a Guardate i gigli del campo, dove il precetto evangelico – addomesticato («Non sia così teso; si rilassi. / Guardi i fiori, là nel vaso di vetro. / Sì, sono belli e freschi. Ricordo / d’aver regalato a mia madre dei fiori una volta…») – torna buono, in una seduta analitica, perché il paziente (l’io del monologo drammatico) «ricordi» anche quando, soldato romano catturato dai barbari, era stato «legato ad un palo e obbligato a guardare» mentre l’imperatore Valeriano veniva «scuoiato vivo, / il più lentamente possibile, per protrarre il dolore»: «La sua morte era durata ore. / Erano stati molto pazienti. / E con lui s’era spento l’onore di Roma. // Alla fine, venni riscattato. Mia madre pagò per me. / Adesso si deve riposare. Deve. Si lasci andare. / Guardi i fiori. / Sì. Sto guardando. Vorrei poter essere come loro» (E sono fiori recisi, si badi bene, non «gigli del campo»: forse ancora «belli e freschi», ma presto destinati ad avvizzire come la pelle del padre-imperatore, grottescamente impagliata.)
Siamo decisamente, direi crudamente, nei dintorni di «Amleto e Edipo», filtrati con ampie dosi di T. S. Eliot («Mi hai dato dei giacinti per la prima volta un anno fa; / mi chiamavano la ragazza dei giacinti»…) e Robert Lowell – entrambi presenze quasi tangibili nel secondo libro di Hecht, The Hard Hours (1967), che dà il titolo a questa prima preziosa antologia italiana, Le ore dure (Roma Donzelli «Poesia», pp. 208, euro 17,00), a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, con eccellente introduzione del poeta americano Joseph Harrison. A eccezione della raccolta d’esordio, A Summoning of Stones (1954), semi-sconfessata dallo stesso autore, tutte le raccolte di Hecht – da The Hard Hours a The Darkness and the Light (2011) attraverso A Million of Strange Shadows (1977), The Venetians Vespers (1979), The Transparent Man (1990) e A Flight among the Tombs (1998) – sono ben rappresentate, con scelte che ne confermano da un lato la latitudine e varietà d’ispirazione, dall’altro l’ipnotica, a tratti claustrofobica ripetitività. Che è la ripetitività criminale e dissennata della Storia, che si rispecchia e riproduce nell’impersonalità del rito: la «cerimonia dell’innocenza», come s’intitola una delle ultime poesie, esile e nonchalante, quasi una postilla a un capolavoro degli anni sessanta, il poemetto-preghiera Riti e cerimonie, che dal chiuso di una camera a gas spazia attraverso secoli di persecuzione degli ebrei.
Il contrappunto di diverse epoche storiche è, infatti, uno dei «metodi» privilegiati della poesia di Hecht. Nell’Offerta espiatoria, ad esempio, dove quella che sembrerebbe una classica ecfrasi – un esercizio un po’ accademico: la descrizione di un Renoir – mette all’improvviso in relazione inevitabile un interno alto-borghese della Parigi secondo Ottocento e un episodio di brutalità durante la guerra d’Algeria. O in More Light! More Light! (le parole estreme di Goethe, sul letto di morte: «Più luce! Più luce!»), dove ad alcuni dettagli del supplizio di due martiri anglicani è sovrimpressa una scena di sadismo nel campo di Buchenwald (non così lontano da Weimar…). O ancora, nel gran finale (qui non tradotto) del lungo monologo drammatico Vedi Napoli e puoi muori, dove la nobile figura di Plinio il Vecchio, dimentico del pericolo della pioggia di pietre e lava nella concentrazione disinteressata dell’osservazione scientifica di un’eruzione del Vesuvio, campeggia infine su quella del meschino turista americano che, nel resto della poesia, ha ripercorso e, forse senza accorgersene, mistificato le fasi della rovina del suo matrimonio.
S’è già detto, Anthony Hecht è un maestro delle forme: ha scritto sonetti, sestine, villanelle, epigrammi, odi e canzoni nelle forme metriche più intricate; ha tradotto e reinventato da classici e contemporanei, da Sofocle a Orazio, da Voltaire a Joseph Brodsky; è un incurabile «punster» («mens sana in men’s sauna…»), capace di un umorismo sardonico, corrosivo: la sua parodia di Matthew Arnold, The Dover Bitch (la puttana – non la spiaggia! – di Dover), ormai è quasi più antologizzata dell’originale… Ma sono convinto che le sue riuscite più alte siano nel genere del monologo drammatico (non a caso «vittoriano»: come Arnold, Browning, Charles Darwin) o, comunque, della poesia narrativa. I novecento e passa pentametri sciolti di The Venetian Vespers si leggono in italiano in un libriccino delle eleganti Edizioni L’Obliquo di Brescia (I vespri veneziani, sempre a cura Egan-Abeni-Harrison, 2011, pp. 55, euro 11,00). Di questa magnifica poesia-romanzo, nelle Ore dure sono riprodotte solo tre o quattro pagine; ma altri monologhi relativamente lunghi – l’autobiografico Apprensioni e due storie al femminile, L’uva e L’uomo trasparente – vengono inclusi integralmente. Né manca Verde: un’epistola, impietosa, trascinante lettera a sé stesso, dove l’origine e lo sviluppo degli impulsi più negativi e rabbiosi di una coscienza individuale (il «verde», non solo dell’invidia) sono seguiti, al microscopio, nella protratta metafora della maturazione botanica del pianeta. Qui bisognerebbe citare a lungo, perché l’effetto è cumulativo, una valanga di precisissimi dettagli. Ecco, a puro titolo d’esempio, e quasi a caso: «È stata, dal principio, una guerra sempiterna / condotta, come sempre, con costi spaventosi. / Si pensi alla siccità, alle bizze del vento e del clima, / i semi innumeri dilavati a una fine di sale / o portati infine a riposare su terra sterile. / Si pensi ai viticci che come vermi lenti incedono / in cerca d’acqua, ciechi e bianchi come la morte. / Si pensi alle arcane mutazioni che la vita esige. / Solo i più forti resistettero, loro stessi radicalmente mutati; / addestrati alle scienze attente degli storpi / di muto compromesso. I sopravvissuti erano tutti, / ciascuno a modo suo, amputati che avevano imparato / a vivere con quei monconi, come i mendicanti di Brueghel. // Eppure, nonostante tutto, fu un chiaro trionfo, / considerando, come si deve, cosa era in serbo. / E, anche presi uno a uno, quei campi di trifoglio, / typha, quei felceti, le distese di ninfee / smosse dalle più lievi brezze, arrendevoli, remissive – / chi avrebbe potuto definire la loro creazione rabbia?».