Il pomeriggio del 28 dicembre 1817 si incontrarono tre fra le maggiori figure della letteratura inglese del momento, Wordsworth il poeta venerato, Keats il poeta ventenne e Charles Lamb il saggista popolare. Si aggiunsero un esploratore, Joseph Ritchie, un funzionario di rango, e più tardi vari altri ospiti a cui fu chiesto di restare per il pranzo serale. Il convito si svolgeva a Londra nello studio del pittore Benjamin Robert Haydon che, con la poca modestia che contraddistinse tutta la sua difficile vita, si riferì da allora in poi a quella serata col termine di immortal dinner.
La fama di Haydon non ha mai superato il canale della Manica, ma all’epoca in cui si svolse l’incontro fra immortali l’artista godeva di una reputazione eccellente, messa in discussione da alcuni a causa del suo carattere permaloso ma accettata da lui stesso con infallibile certezza: era solito contemplare le proprie opere finite e gridare al capolavoro.
Per capire l’opera e la tragica vicenda di questa figura curiosa basterebbe guardare le sue tele per lo più smisurate e coperte di figure in pose convulse. I titoli rivelano l’ambizione di essere ricordato come il più grande pittore inglese di storia, fosse mitologia, sacri testi o leggenda nazionale: Marco Curzio si getta nella voragine, Macbeth, Il giudizio di Salomone, La cacciata di Artistide furono composti con furia ma con lentezza, dovuta allo scrupolo ma anche alla povertà della vista che lo costrinse sempre a lavorare con occhiali multipli.
Aveva iniziato studiando a Londra nel 1804 sotto la guida di Füssli, che divenne un amico fidato e lo protesse anche nella prima delle liti furiose che il pupillo ebbe con la Royal Academy. Era il 1809 e Haydon aveva iniziato da poco una carriera di un certo successo vendendo Il riposo nella fuga in Egitto a Thomas Hope, uno degli arbitri del gusto del momento. Il dipinto suscitò anche la curiosità di un altro patrono delle arti, Sir George Beaumont, pittore dilettante lui stesso e collezionista di grido (fu lui ad acquistare a Roma nel 1823 il Tondo Taddei quando era nella raccolta del pittore Wicar e a donarlo poi alla Royal Academy). Beaumont prese Haydon sotto la sua ala e ottenne per lui il permesso di visitare la dimora di Lord Stafford con lo scopo di confrontare la propria tavolozza con i colori dei Tiziano posseduti dal nobiluomo.
Tutto sembrava andare per il meglio e i biglietti da visita dell’aristocrazia fioccavano in casa di Haydon, che nel frattempo si era messo all’opera su un soggetto anodino della storia romana, l’uccisione del console Dentato. Dopo avere consegnato la tela alla Royal Academy per l’esposizione annuale la ritrovò esposta in uno dei primi ambienti e non nella sala principale accanto ai grandi maestri del momento: l’insulto era al di là di ogni possibile spiegazione! Poco valsero le gratifiche pecuniarie che i suoi protettori gli elargirono: la massima associazione artistica del paese divenne sua nemica a vita.
Haydon è stato definito uomo di colossale energia, formidabili passioni, abbondante vanità e scarsissimo senso comune. Gli eccessi della sua anima tormentata, che vagava dai picchi di entusiasmo agli abissi della furia, si rispecchiarono inesorabilmente nell’esito delle sue opere che venivano o esaltate o ignorate dal pubblico. Al momento del convito immortale era al lavoro su una delle sue tele più ambiziose, L’entrata di Cristo a Gerusalemme, alta quattro metri e larga quattro e mezzo. Ci vollero diversi anni per terminarla e frotte di visitatori vennero a osservare il lavoro in corso e a dare giudizi: intanto lui studiava ogni posa con ossessività e si impiegava a fare ritratti di conoscenti da mettere come comparse illustri in quella scena affollata. Da bravo sostenitore dello studio del corpo umano e delle fisionomie aveva un modello preferito, il Caporale Sammons, un metro e novanta di muscoli, che finì per divenire una sorta di cameriere tuttofare.
Ma non contento di disegnare dal vero Haydon si mise a fare calchi in gesso di amici e parenti, incluso Wordsworth, che subì la realizzazione della propria maschera facciale sopportando con eleganza le cannucce nel naso. Non filò altrettanto liscia con il calco del torso di Wilson, un giovinetto nero dalle proporzioni prassitelee arrivato da Boston: per immortalare quello straordinario torace Haydon costruì una cassa in cui prima infilò prima il modello e colò l’impasto. Se non fosse stato per la forza del pittore, che alla vista del ragazzo privo di sensi in pochi secondi spaccò in tre la costruzione, tutto si sarebbe risolto in tragedia. Il calco però era riuscito.
L’energia con cui Haydon amò il proprio mestiere e perseguì lo scopo di migliorare lo stato delle arti in Inghilterra veniva fiaccata a intervalli regolari dalle sciagure economiche e personali. Venne arrestato per debiti diverse volte, perse cinque dei suoi adorati figlioletti, conobbe la vendetta della Royal Academy che pur di non premiarlo – era l’unico a meritare l’onore – decise di non dichiarare il vincitore e devolvette la somma a un acquisto. Le invettive che negli anni Haydon aveva rivolto pubblicamente a quell’istituto figuravano nero su bianco nelle pagine dei giornali e l’oggetto del suo odio viscerale era l’uomo più potente nel campo delle teorie d’arte e del gusto, Richard Payne Knight. Ma arrivò l’ora della rivincita.
Per comprendere perché Haydon oggi ha un posto particolare nella storia inglese non basta guardare i suoi quadri, spesso considerati a dir poco modesti: egli è ricordato soprattutto per aver scritto con passione travolgente uno sterminato diario (ventisei volumi) che i critici letterari giudicano a ragione uno dei più struggenti monologhi interiori scritto in epoche recenti. La sincerità e lo stile con cui ha narrato le traversie della sua vita rende quelle pagine una commovente memoria della gioia e della disperazione, del rancore e della religiosità accorata e confidenziale come le sue suppliche rivolte al cielo in ginocchio, tavolozza alla mano, prima di iniziare una nuova composizione. Ma è anche una cronaca della vita artistica londinese dei primi trent’anni dell’Ottocento in cui risuonano la voce di Füssli con il suo bizzarro accento svizzero o le chiacchere intorno al tavolo di Lord Beaumont.
E nel diario finalmente arriva la riscossa su Payne Knight. Dal giugno 1807 erano visibili a Londra i marmi del Partenone portati da Lord Elgin, esposti in un capannone nel giardino di una casa a Piccadilly. Haydon li vide, li disegnò, e la sua visione dell’anatomia non fu più la stessa, come scrisse nel diario con parole accorate. Cambiò anche il suo rapporto con la bellezza ‘ideale’, che fino allora aveva avuto forma nella statuaria romana: fu come se il Teseo del Partenone uccidesse l’intero Olimpo marmoreo dei latini. Ma non tutti la pensavano così, tra questi Knight: disse in faccia al mortificato Elgin che i suoi marmi non erano altro che copie dell’epoca di Adriano! La furia di Haydon fu terribile e dalla stampa tuonò la sua voce con ragioni così fondate da far tremare persino la Royal Academy e il British Museum di cui il suo avversario era il pilastro.
Ma il British Museum prima di decidere l’acquisto chiese al massimo artista del momento un parere definitivo. Passarono anni e Canova arrivò, si commosse estasiato e si congratulò con Haydon per la sensibilità del suo occhio. Lo scultore visitò lo studio del pittore e fece un cortese apprezzamento dell’ Entrata a Gerusalemme. Poi Haydon gli chiese: «Se l’Apollo del Belvedere non avesse avuto quella bella testa pensa che sarebbe stato così apprezzato?», e Canova per farlo felice rispose «forse no».
Stremato dal caldo del giugno 1836, dall’imminente, ennesima incarcerazione ma soprattutto dalla incomprensione del pubblico si uccise dopo aver chiesto perdono a Dio nel diario. Aveva stilato il proprio epitaffio ma era lungo una dozzina di righe e non entrava sulla piccola lastra che la famiglia poteva permettersi.