Francis Haskell (1928-2000) è stato uno degli studiosi più innovativi del Novecento: con il suo lavoro ha consegnato alle future generazioni modi nuovi di intendere la storia dell’arte. Nei suoi libri, nei suoi saggi, nei suoi articoli, Haskell ha sempre posto al centro della ricerca il rapporto che le opere e gli artisti che le realizzarono intrattengono con la società nella quale quelle opere sono nate e in cui, in un certo senso, hanno continuato a ‘operare’ dopo la loro creazione.
In un’intervista rilasciata a Jean-Pierre Cuzin per una serie di video-documentari realizzati dal Musée du Louvre , poi pubblicata anche da Allemandi (accompagnata dal testo scritto) nel 2001, Haskell dichiarava: «Sia la storia dell’arte, sia ogni altro genere di storia sono una specie di risurrezione del passato. C’è chi pensa che le domande a cui cerco di rispondere siano marginali per la storia dell’arte, poco importanti. Io invece sono profondamente convinto che il nostro attuale modo di percepire l’arte dipenda in parte da ciò che riusciamo a disseppellire dal passato in modo da riportarlo alla vita, per quanto possibile». È un punto cruciale per comprendere il modo in cui, in molti casi, lo sguardo di Haskell si è posato sul passato.
Come ha ricordato Charles Hope in un necrologio dello studioso inglese, fu probabilmente un vantaggio non aver ricevuto una formazione ‘canonica’, tradizionale: Haskell arrivò alla storia dell’arte dopo i corsi di Storia – dove seguì Eric Hobsbawm, di cui sarebbe divenuto amico – e di Inglese, a Cambridge. Forse giungeva da quella formazione la sua capacità di sfuggire a alcune delle pratiche correnti: una storia dell’arte fatta di opere e stile, ancora legata al formalismo. Sotto la direzione di Nikolaus Pevsner, Haskell intraprese il lavoro per la sua dissertazione, dedicata a indagare la relazione tra l’ordine dei gesuiti e l’arte nella Roma del Seicento. Di lì, da quella tesi, nacque il suo primo libro, un capolavoro: Mecenati e pittori L’arte e la società italiana nell’età barocca.
Dopo una lunga e infaticabile perlustrazione di archivi, musei e biblioteche, oltre che delle chiese di Roma e di Venezia, Haskell ricuciva una serie di vicende e avvenimenti che restituivano un panorama della cultura artistica sei e settecentesca quanto mai mosso e complesso. Le diverse vicende nella Roma pontificia di pittori e scultori alle prese con le richieste della committenza e con le difficoltà delle esposizioni per vendere i propri quadri; o ancora le grandi imprese degli ordini religiosi; per non parlare del modo in cui, nella Serenissima, la nobiltà si vide soppiantare il ruolo tradizionale di committente da una classe di ‘nuovi nobili’ che si erano comprati il titolo: sono solo alcuni (pochissimi, e trascelti a caso) dei temi che si incontrano nelle pagine del volume di Haskell.
In molti casi si parla di ‘mecenatismo’, ma è forse una vocabolo che inganna: è nel senso più pieno del suo significato che esso va compreso. I committenti, certo, ma anche gli artisti e le loro opere, i collezionisti, i mercanti. Insomma, tutto il complesso mondo che volgeva i suoi interessi alle opere d’arte. Ma è bene specificare, come molti studiosi hanno sottolineato, che il libro non propone alcuna ‘teoria’ del mecenatismo artistico. Anzi. È a partire da casi concreti, fatti di uomini e opere, che Haskell ha costruito il suo complesso edificio storiografico; da dati spesso minuti che, incastonati in un contesto più ampio, assumono il loro valore significante. Attraverso le carte d’archivio venivano integrati i dati ricavati dalle fonti a stampa; grazie alle indagini condotte sugli epistolari si potevano riannodare i fatti che emergevano in controluce dai documenti di vendita. Come trama e ordito, le diverse fonti contribuiscono a comporre un quadro storico che valica la partizione a dittico del volume (Roma nel Seicento; Venezia nel Settecento) e si estende verso l’Europa.
È un campo di forze affascinante e ricchissimo, che dalla prima uscita del libro, nel 1963, non ha cessato di arricchirsi e rivelare nuove sfaccettature. Tradotto in italiano per la prima volta nel 1966, da Sansoni, quasi l’intera tiratura del volume fu falcidiata dall’alluvione di Firenze. A quella perdita riparò, in parte, l’edizione del 1985, che segnò, in un clima mutato rispetto alla prima uscita del libro, un momento di vera fortuna del suo autore. Fu poi la volta della terza edizione, pubblicata da Allemandi, alla quale non toccò miglior sorte della prima: l’incendio che arse il magazzino della casa editrice torinese consegnò il libro alla sorte di rarità bibliografica. Segnato da questa vera e propria sfortuna materiale, esso soffrì, però, anche di una certa diffidenza nel mondo degli studi. La metà degli anni sessanta, che vide comparire la prima traduzione, era una stagione in cui la ‘storia sociale dell’arte’ – come si potrebbe etichettare in un modo riduttivo quant’altri mai Mecenati e pittori –, che giungeva dal mondo inglese, non godeva di buona critica in Italia. Basterà ricordare che il volume sulla pittura fiorentina del Trecento e il suo ambiente sociale, di Frederik Antal, uscì nel 1948 e fu tradotto da Einaudi nel 1960; la Storia sociale dell’arte di Arnold Hauser uscì nel 1951 e venne pubblicata, dalla medesima casa editrice, nel 1955-56. Una sorta di equivoco, quello che segnò la sorte di Mecenati e pittori, giocatosi sulla diffidenza di Roberto Longhi, lo storico dell’arte che più ‘faceva scuola’, rispetto alle ricerche di tipo ‘sociologico’.
Oggi, il volume di Haskell è stato riproposto da Einaudi a partire dalla terza edizione italiana, che era stata curata da Tomaso Montanari, il quale in quest’occasione firma anche la prefazione al volume (pp. 612, 155 ill. a colori, euro 95,00). Come ricorda Montanari, già Giovanni Romano, in un ricordo di Haskell pubblicato proprio sulle pagine di «Alias» nel 2000, riconosceva la ‘sfortuna’ di cui il libro aveva goduto in Italia. C’era voluto del tempo per capire tutta la portata di quel volume, che ha continuato a essere un esempio per molte, più giovani, generazioni di studiosi. Eppure viene da chiedersi se davvero si faccia un buon ufficio a Mecenati e pittori ripubblicandolo in questa lussuosa e assai costosa veste editoriale. Ma non sarebbe valsa la pena di riproporlo direttamente in un’edizione più economica, capace di raggiungere con effetto immediato un pubblico di giovani? Non solo gli studenti universitari, s’intende. Così, di fatto, il prezzo di copertina non si discosta di molto dalle copie del mercato antiquario delle varie edizioni precedenti. Pare che arriverà un’edizione ‘tascabile’, non resta che aspettarla benevolmente.
Sarebbe assai utile, comunque, se qualcuno si animasse a riproporre anche un altro testo fondamentale di Haskell, Rediscoveries in art, pubblicato per la prima volta nel 1976, la cui inadeguata e faticosa traduzione italiana del 1982, Edizioni di Comunità, non rende giustizia al meraviglioso, ironico e gustoso inglese dell’autore.
Come sottolinea Montanari in prefazione, Haskell praticava una storia dell’arte nella quale tutti quanti gli elementi – le opere e il giudizio di qualità su di esse, le fonti d’archivio, le indagini sui committenti e sulla storia del gusto – concorrono a dare un quadro il più possibile composito, che contribuisce a «disseppellire dal passato» quegli elementi utili a comprendere meglio, e più a fondo, l’intero insieme. Un modello che oggi, angariati da mediane, settori disciplinari sempre più angusti e logiche concorsuali sempre in agguato, potrebbe fungere da benefico antidoto.