Scavare nella memoria può diventare un compito ingrato non solo per gli storici ma anche per i romanzieri. In una nota all’opera omnia di Anne Frank, Gerhard Hirschfeld scrive: «La tragedia dell’ebraismo nei Paesi Bassi si fondò non da ultimo sull’illusorio senso di sicurezza derivato dal successo dell’integrazione nella società olandese». L’Olanda porto sicuro, l’Olanda della monarchia anti-nazista, andò in quegli anni più volte incontro alla pretesa di mantenersi neutrale, prima, e a atteggiamenti accomodanti nei confronti del Reich poi, cadendo infine nell’inganno del Dolle Dinsdag, i precipitosi festeggiamenti per una pace che, in realtà, era ancora lontana. Sono pagine di una storia densa di fraintendimenti, che fu a lungo oggetto di furiose polemiche.

Ossessionato dal trauma della guerra, Harry Mulisch, uno dei «Tre Grandi» della letteratura olandese, non si limitò a cercare di depotenziarne le ricadute psichiche ma tornò più volte sull’argomento per rendere visibili i miti moderni cui aveva dato luogo. Nelle sue opere sulla guerra, la verità del fato prevale sulla effettività storica, e le sue pagine alludono al tempo stesso a un destino cosmico e alla eccezionalità di un evento fondativo e dolente, capace di determinare ancora la vita dei singoli.

Figlio di una ebrea di Anversa e di un collaborazionista austriaco che abbandonò la famiglia durante la guerra, Mulisch amava dire di sé: «Io sono la seconda guerra mondiale»; con l’andare del tempo avrebbe eletto la propria biografia a una sorta di paradigma venato di spudoratezza, e avrebbe riversato l’ossessione per la sua storia familiare in un romanzo che oggi Neri Pozza pubblica con il titolo L’attentato (traduzione di Gianfranco Grasso, pp. 240, € 18,00, edizione originale del 1982, Feltrinelli lo pubblicò nel 1986). Accompagnato da una smisurata ambizione, nella fase tarda della sua carriera l’autore si convertì dal giovane eclettico e movimentista che era stato in un massimalista inventore di opere dal carattere monumentale, quasi concependo se stesso come un mausoleo di cui L’attentato, a metà fra thriller colto e romanzo filosofico, avrebbe dovuto costituire uno dei pilastri.

Il contatto fra storia collettiva e vicenda personale occupa già l’apertura del romanzo: una sera del 1945, l’ispettore di polizia Fake Ploeg sta rincasando in bicicletta quando viene colpito a morte da sei colpi di pistola. Nell’oscuramento assoluto imposto della misure belliche, gli autori dell’omicidio si dileguano, mentre sullo sfondo sembrano riecheggiare le parole dello Straniero di Camus: i «colpi secchi che battevo sulla porta della sventura».

L’uomo, convinto filo-nazista, è riverso sul selciato di una strada isolata di Haarlem, fra poche case, ma sventuratamente troppo prossimo a una di esse, ciò che espone gli abitanti al pericolo di rappresaglie. Se Ploeg fosse caduto pochi metri più avanti, o più indietro, la sventura sarebbe toccata ad altri: quando il cadavere viene spostato di nascosto e trascinato sulla porta degli Steenwijk, la famiglia teme, indugia, e questa esitazione si rivela fatale, perché la vendetta nazista si abbatterà su di loro.

L’intreccio di scelte individuali e crudeltà del caso si combinano nel destino che Mulisch rende in qualche modo protagonista della sua opera. L’unico superstite della famiglia Steenwijk, Anton, all’epoca poco più che un bambino, passa quasi quarant’anni a cercare in ogni modo di cancellare il ricordo dell’attentato; ma questo torna a galla in forma di dilemma morale, prendendo l’aspetto di un enigma. Anche a distanza di anni, quando le attenuanti ideologiche sono ormai usurate, la violenza introiettata interroga la coscienza di Anton, mentre il romanzo mette a confronto figli dei nazisti e figli delle vittime, antifascisti saliti al potere ed ex militanti scivolati ai margini, testimoni ed eredi, assumendo la forma di una saga.

Sulla simbologia del potere
Ognuno cerca la propria via di fuga, ma tutti gravitano attorno a quella azione partigiana – militarmente eroica ma moralmente problematica – che aveva innescato la rappresaglia contro la famiglia Steenwijk. Costretto a dismettere le sue pretese di vivere nell’amnesia, Anton ricapitola i ricordi: «Aveva una quarantina d’anni e quel tipico viso smunto e d’acciaio con tanto di Schmis orizzontale sotto lo zigomo sinistro: al giorno d’oggi un dettaglio buffo, di cui si servono ormai solo registi di film di genere comico o sadomaso di seconda categoria…Ma il suo viso, allora, non aveva niente di artistico, era semplicemente il viso di un “nazista convinto”: per niente, proprio per niente ridicolo».

Più in là negli anni, Mulisch avrebbe dedicato un’attenzione sempre maggiore alla simbologia del potere, al suo fascino sinistro, rivendicando la propria militanza giovanile, la simpatia mai venuta meno per Castro, e rischiando di far passare tutto ciò per il vezzo di un eccentrico ultra-borghese. Eppure, il suo sforzo di comprensione della storia fu non meno reale dei traumi subiti nell’infanzia, e dei morti che continuavano a ossessionarlo.

Gli interrogativi lasciati aperti nell’Attentato confluirono poi nel suo titolo più ambizioso, La scoperta del cielo, un romanzo dall’architettura elefantiaca. Mulisch ricamò a oltranza, negli ultimi suoi libri, sulla natura carismatica del potere, sul corpo del capo, e nella Scoperta – romanzo dal sapore bilblico – concepì un’astrusa logica universale del potere, le cui premesse si intravedono, fra dubbi e reminiscenze, già nell’Attentato.

Fra le ceneri della Resistenza non si intravede, però, alcuna logica. Pur mantenendo un tono sentenzioso, che monopolizza il romanzo ben più dell’azione, qui Mulisch non pretende di risolvere i suoi dilemmi. Restando convintamente ancorato al passato, anche a quello più remoto, descrive la distanza che separa i suoi personaggi dal trauma subito, come se si alimentassero ancora a un’esistenza precedente. Per alcuni la vita resta congelata in un episodio bellico; altri nei decenni sentono più forte il dolore della promessa tradita. L’incontro fra Anton Steenwijk, colui che era restato orfano nel 1945, e l’ex partigiano Cor Takes funziona a ricostruire la dinamica degli eventi che li avevano visti partecipi e serve a entrambi per ricucire lo strappo del tempo.

Un paese senza ruderi
Nella landa che separava Haarlem da Amsterdam adesso sorge quasi una città. I Paesi Bassi non guardano indietro, non esistono ruderi: non a caso la storica Marita Matthijsen ha parlato di «assenza del passato» nel paesaggio olandese. Mulisch invece, scomparso esattamente dieci anni fa, e inventore di un’epica personale, torna indietro nel tempo e come in un nostos traghetta i suoi personaggi nei luoghi più polverosi delle loro biografie; ma non per rievocare ricordi. Non esattamente, almeno, perché la guerra gli appare in realtà lontana e fa scegliere ai suoi personaggi di dimenticarla.