Torno, non torno. Mi dimetto, anzi no. Con il passare dei giorni il caso Hariri non si dipana: domenica il premier libanese (quasi ex) ha parlato a Future tv, legata al suo partito, Mustaqbal.

Ha ribadito la stessa versione del 4 novembre: non è prigioniero in Arabia saudita (sebbene ieri fonti a lui vicine abbiano detto alla Reuters che nella pratica è ai domiciliari a Riyadh) e tornerà in Libano «tra pochi giorni» per consegnare di persona le dimissioni. Ma è anche possibile che decida di restare premier: «Una marcia indietro è possibile se le forze politiche rispetteranno una politica di auto-esclusione dai conflitti regionali».

Chiaro riferimento a Hezbollah e alla vicina Siria. Nel discorso di Hariri permane la narrativa saudita, in parte abbracciata anche dalla Lega Araba che su richiesta di Riyadh si riunirà domenica prossima per discutere dei modi «per confrontare l’interferenza iraniana nei paesi arabi». Una narrativa basata sulla generazione del caos in paesi già di per sé instabili. Come il Libano.