Chiffon, seta, pelle, denim, mussola, cotone, poliestere, viscosa, pelle ma anche carta da parati e tessuti ricamati a mano sono tra gli elementi chiave del processo creativo di Hangama Amiri (Kabul, Afghanistan 1989, vive e lavora a New Haven, Connecticut, USA). L’artista, che nel 2020 ha conseguito il Master in Fine Arts in pittura e incisione alla Yale University, esplora temi di genere, identità e memoria attraverso un linguaggio in cui l’ago e le forbici sostituiscono i pennelli. «Come rifugiata afghana, produco opere tessili che evocano la mia personale diaspora come mezzo per indagare la politica di genere nella cultura islamica, celebrando al tempo stesso questioni femminili che sono state considerate tabù», afferma Hangama Amiri.

Dopo la mostra Bazaar – A Recollection of Home (2020/2021), Amiri è tornata alla galleria T293 di Roma per la doppia personale con Brittany Miller presentando Reminiscences II (fino al 25 maggio), ultimo capitolo del progetto autobiografico iniziato nel 2022 in cui le fotografie dell’album di famiglia post esodo dall’Afghanistan si traducono in composizioni tessili in cui la memoria si integra con lo spazio creativo della fantasia.

Qual è la relazione tra fotografia e tessuto nel progetto Reminiscences II?
La serie Reminiscences II documenta la storia di mia madre Gulmakai Muhammad Sarver e di mio padre Atiqullo Amiri, entrambi emigrati in due diversi paesi quando nel 1996 è cominciata la guerra civile in Afghanistan e il paese è stato preso dai talebani. Come rifugiati politici siamo stati prima a Peshawar in Pakistan per cinque/sei anni, poi ci siamo trasferiti a Dushanbe in Tajikistan. Da lì mio padre si è spostato in Scandinavia, prima in Norvegia poi in Danimarca. Di solito c’era sempre un membro della famiglia che emigrava in un paese europeo per poter sostenere economicamente la famiglia stessa. In tutti quegli anni – quasi nove – non ci siamo mai visti. Mia madre ha cresciuto da sola i suoi quattro figli piccoli: ho una sorella e due fratelli. L’unico modo che avevamo di comunicare con lui era attraverso le fotografie. L’intero progetto è la traduzione di quelle foto, gli unici oggetti materiali che esprimono un senso di appartenenza e familiarità tra mio padre e noi che vivevamo a Dushanbe. Esprimono anche il modo in cui ci rappresentavamo. La figura femminile che appare in ogni opera tessile è mia madre. È molto interessante vedere come l’individuo difenda il proprio spazio intimo. Tutte le fotografie, infatti, sono state scattate all’interno della casa, spesso con noi figli, in momenti celebrativi come le feste di compleanno o il Capodanno. C’è anche un ritratto di me che porgo dei fiori a mia mamma in Mother’s Day (2024). Il messaggio è quello che mia madre ha voluto dare, ovvero che stessimo bene. Dall’altro lato ci sono dei ritratti di mio padre in Scandinavia. L’opera Man Resting in the Park (2022) è più legata alla mia fantasia su di lui, a come si potesse sentire a vivere lì. Le foto lo ritraggono soprattutto all’esterno, circondato dalla natura o fuori dal negozio di alimentari. Anche il suo messaggio era di calma, tranquillità. In Man with Vase of Tulips (2024) mio padre è ritratto con un vaso di tulipani. Quel lavoro in un’azienda di tulipani in Danimarca, proprio grazie a qualcosa di così delicato e bello come un tulipano, abbiamo potuto essere sostenuti economicamente.

La fotografia come negoziazione di memoria e identità: tutto è concentrato sui due microcosmi rappresentati da una parte dalle foto di tua madre e dall’altra da quelle di tuo padre, non vediamo «gli altri»…
Ogni volta che guardiamo le foto dell’album di famiglia tendiamo a vederle come i nostri spazi privati – come eravamo nel passato, quanto eravamo felici – ma sono di fatto anche degli spazi aperti. Questo è il motivo per cui ho voluto mettere in mostra delle tende che creassero una distanza con l’esterno e un silenzio che permettesse di riflettere più tranquillamente leggendo le immagini ed esplorandole nella loro interiorità.

Chi sono gli autori degli scatti fotografici?
La maggior parte delle foto di mia madre è stata realizzata da noi figli, quando eravamo bambini (sorride). Si può vedere dalle inquadrature storte, dalla prospettiva dal basso verso l’alto che rende la figura di mia madre protagonista della scena in tutta la sua forza. Tradotta nel tessuto, la fotografia si espande in maniera diversa creando una propria narrativa, perché il tessuto «allunga» i dettagli della foto, i colori. Per me è anche un modo per imparare, capire e rivivere quelle storie che avevo vissuto dalla prospettiva di bambina e poi adolescente, senza aver idea di quello che effettivamente stesse succedendo. Utilizzare il tessuto che è un materiale soffice a cui affidare la fragilità della memoria, mi ha permesso di riconciliarmi con quelle memorie perdute.

Anche il cibo è un veicolo della memoria, spesso nelle tue opere sono presenti tavole imbandite, pietanze o prodotti alimentari, in Reminiscences II vediamo la frutta secca e i «nuqol»…
Inviare frutta secca a mio padre, che non ne poteva trovare nei paesi scandinavi, era un modo per farlo sentire a casa. Gli spedivamo anche pacchi di «nuqol», delle specie di caramelle di mandorle fuse con lo zucchero che noi Afghani amiamo moltissimo. Quando espando questi oggetti banali del quotidiano attraverso il tessuto, provo a metterli in un contesto contemporaneo in cui assumono altri significati trasformandosi, come nel lavoro di Claes Oldenburg. I miei sono oggetti della diaspora, quindi si prendono un loro spazio.

Nel processo di realizzazione dell’opera, qual è il passaggio dalla foto d’archivio alla selezione del materiale, sia nei negozi di tessuti del Fashion District di New York che online, per arrivare alla cucitura finale?
Quando ho cominciato a trasformare queste immagini l’ho fatto in maniera molto pittorica, come un pittore che usa la foto come base ma trasforma la realtà con il segno del pannello. Ero interessata al modo in cui trasferire la realtà della foto attraverso i tessuti, ma con un margine di spazio di finzione e di gioco. Ad esempio in Portrait of a Woman with Denim (2023) il tappeto nella foto era persiano e sarebbe stato impossibile ricrearlo nel tessuto, quindi mi sono inventata un mio pattern personale che comunque richiama l’idea del tappeto orientale. La carta da parati, invece, è reale. Un tipo di carta da parati post sovietica di quelle che si usavano negli appartamenti afghani e che ho trovato online. Il mio approccio al materiale avviene in maniera molto istintiva e romantica, quando vado in un negozio di tessuti porto sempre con me i miei schizzi che vengono dalle foto e che sono la base per le opere tessili. Se non trovo di persona quello che cerco, lo cerco online. C’è sempre un urgente desiderio di ricerca, di qualcosa che si può percepire come familiare.

Sei tu a cucire le tue opere?
La maggior parte del lavoro lo faccio personalmente ma ho un’assistente che mi aiuta per gli aspetti pratici, considerando che alcune volte sono centinaia i pezzi di tessuto cuciti insieme. Tutta la mia infanzia si è svolta intorno ai tessuti. Mio zio era sarto e ogni mattina prima di andare a scuola mi fermavo alla sua bottega, ricordo il suono delle forbici in azione. Nell’ambiente in cui sono cresciuta non c’erano istituzioni d’arte, solo tessuti e indumenti. Mia madre mi ha insegnato a usare ago e filo. Alla base della mia creatività e del mio senso estetico c’è tutto questo.