Si è appena chiusa l’edizione 2019 della Biennale Teatro, uno dei pochi appuntamenti importanti della nostra scena, soprattutto per offrire allo spettatore italiano un grande panorama internazionale, individuali punte avanzate di ricerca e grandi istituzioni straniere che indagano il nuovo, assolvendo nello stesso tempo alla conservazione e al rinnovamento del grande patrimonio del passato. Sembrano slogan, ma da noi la situazione a questo riguardo è spesso drammatica, divaricata tra i due punti spesso sbilanciati da una o dall’altra parte.

L’EDIZIONE di quest’anno, la terza del ciclo affidato alla direzione di Antonio Latella, era focalizzata sulla drammaturgia. Termine che in Europa ha un senso assai più ampio che in Italia, dove si riferisce alla pura scrittura di un testo, per comprendere invece anche la «possibilità» di rappresentazione, nel senso di organizzazione e strumentazione necessaria a regista e attori, la loro «formazione» rispetto a quel testo, la progettualità e i legami col mondo reale, per poter essere trasmessi al pubblico. Una funzione delicatissima, che quasi naturalmente porta, soprattutto nei teatri e nelle istituzioni di area germanica, ad affidare proprio al «dramaturg» una funzione di primo piano, se non di direzione.

PER QUESTO forse è apparso meno «peregrino» di altre premiazioni, il Leone d’oro alla carriera proprio a un drammaturgo, il tedesco cinquantenne Jens Hillje, attuale condirettore di uno dei massimi teatri berlinesi oggi, il Gorki Theater. In realtà il suo nome lo si conosceva da tempo: da quando una ventina di anni fa fu chiamato alla direzione collegiale della Schaubühne in una squadra (tutta di giovanissimi) che comprendeva altri futuri maestri, dal regista Thomas Ostermeier alla coreografa e autrice Sascha Waltz.

Un premio dunque molto meritato, che ha trovato conferma nei due spettacoli da lui promossi e prodotti al Gorki, che sono stati i grandi successi della rassegna veneziana (che ha comunque aumentato il numero dei suoi spettatori, dicono i borderò e il presidente Baratta, nonostante la stagione, tra caldo torrido e freddo piovoso, e perfino l’acqua alta inusuale ad agosto).
I due testi presentati erano una nuova e originale (e coraggiosa) scrittura di Sibylle Berg premiatissima in patria, e un classico contemporaneo del grande Heiner Müller, Hamletmaschine, entrambi per la regia di Sebastian Nübling. Il primo è una sorta di monologo interiore femminile, che si fa ricognizione di una intera società, e forse anche del nuovo ordine mondiale vigente, sussurrato, e gridato e deformato e divertito, affidato a tre straordinarie giovani attrici (almeno a Venezia, dove non ha potuto esser presente la quarta). All’unisono o in controcanto, fanno giustizia sommaria di desideri e pregiudizi, condizionamenti e deliri, necessità e pulsioni che si trovano a vivere. E ovviamente spesso a dover reprimere, rischiare, pagare, superare comunque.

UNA PERFORMANCE strepitosa delle interpreti, che con la simpatia e il coraggio, vanno oltre ogni tabù o pregiudizio, dotate di un atletismo fisico inusuale, e di una tenerezza, interiore e non solo, che conquista e convince dopo pochi minuti. Un grido post politico e postfemminista, da ricordare come esempio di teatro nuovo che sfida la profondità della tragedia classica.
Non meno interessante il lavoro compiuto dallo stesso regista con l’equipe del Gorki, anzi con una sua parte, denominata Exile Ensemble, perché composta da attori provenienti da Siria, Palestina e Afghanistan. Una multiformità, molto professionale, che rispecchia la composizione berlinese attuale, e che si misura con la famosa rilettura dell’Amleto shakespeariano compiuta da Heiner Müller.

Estraneità, diritti, partecipazione, potere, sentimenti evocati dal drammaturgo e riferiti proprio al rapporto con l’Europa (cui si riferisce il famoso Bla bla bla delle prime righe del testo), qui riletti e personificati nelle svelte figurine di un circo delle illusioni, creature simili a clown che giocano la propria inesauribile umanità in un confronto senza sosta né limiti. Un Hamletmaschine fascinoso, fondato e godibile come raramente avviene, che attraverso immagini classiche del teatro prospetta la complessa radiografia dell’oggi. Uno spettacolo su cui riflettere, per fantasia e correttezza, che col sorriso apre visioni drammatiche. Al contrario di una pretenziosa riflessione sull’arte moderna, All Inclusive prodotto in Olanda da Julian Hetzel, che pure ambiva a farsi interpretazione del mondo. Ma tanto erano supponenti artisti visivi e la loro «critichessa», quanto imbarazzati i cinque giovani mediorientali chiamati a fare da strumentali comparse.