No walk no work, Leave no trace, This is not Land art: l’opera dell’artista inglese Hamish Fulton è conosciuta al grande pubblico attraverso formule secche e apodittiche. Non che siano fuorvianti: ciascuna contiene una piccola verità che permette di far luce sul suo lavoro. Tuttavia rischiano di restituire un’immagine del suo pensiero monolitica se non severa. Come se la sua opera avesse bisogno, per distinguersi, di smarcarsi scaltramente sia da movimenti artistici precedenti che rischiano di far ombra sulla sua originalità, sia da gesti quotidiani che rischiano di depotenziarne l’apporto genuinamente artistico.

No work, no trace, no Land Art. Eppure se leggiamo le interviste rilasciate da Fulton nel corso della sua carriera e osserviamo meglio le sue fotografie ci accorgiamo che le cose non stanno così. Fulton infatti fa prova di una grande discrezione, quella di chi cammina a passo leggero, un modo di essere al mondo ritirandosi, un modo di esprimersi dicendo meno.

No work indica che quella di Fulton è una pratica post-studio: le sue camminate avvengono all’esterno, più o meno lontano da casa (da poche miglia a continenti remoti), e le poche fotografie sono sviluppate da un laboratorio; dentro casa, dove preferisce leggere e pensare, non ha neanche una camera oscura. No trace indica che quella di Fulton è una pratica ecologica o eco-sensibile, prossima all’etica ambientale: per alcuna ragione al mondo modificherebbe i luoghi remoti che attraversa a piedi e che, se abitabili, lo sono solo dallo sguardo.

Per dirlo altrimenti: dal paesaggio (ma il termine ha connotazioni storiche troppo antropocentriche) prendere solo delle fotografie, nel paesaggio lasciare solo le impronte delle scarpe. No Land art, infine, ribadisce che quella di Fulton è una pratica da walk artist e non da land artist, una forma di promenadologia (per citare Lucius Burckhardt, il cui Il falso è l’autentico è stato tradotto nel 2019 da Quodlibet). Per questo Fulton non riconosce alcun debito nei confronti del triumvirato del movimento americano (Michael Heizer, Robert Smithson, Walter De Maria). Fondanti per lui sono invece le testimonianze dei nativi americani come Alce nero parla, suo livre de chevet.

Si coglie così la discrezione visiva con cui Fulton restituisce quello che vede e vive nel corso delle sue camminate, lontano da ogni tentativo di imporre la sua visione sul mondo. Senza voler realizzare un’installazione, a volte capita a Fulton di disporre alcuni elementi sul terreno, come dei bastoncini raccolti durante il cammino. Sono fotografati dall’alto verso il basso, disposti verticalmente più o meno alla stessa distanza – una scultura fatta di elementi naturali (Seven Days. Whistling Elk. A seven day walk in the Rocky mountains of Alberta, Canada Autumn 1978).

Ma già nell’estate 1973, a Isle of Lewis and Haris in Scozia, Fulton scatta Five Knots for Five Days of Walking che mostra, nella metà inferiore, una cordicella serpentina annodata dall’artista ognuno dei cinque giorni di cammino. In seguito inciderà un anello sottile attorno a un bastoncino per restituire la distanza percorsa (Eleven notches for an eleven day walking Journey from the middle to the north Coast of Tasmania, marzo-aprile 1979).

Seven Days mostra insomma bene la modalità scelta da Fulton per testimoniare la sua presenza, per dirci che è stato lì: alcuno scatto col paesaggio alle spalle, alcuna foto ricordo, alcun «selfie». L’impronta di una mano sulla sabbia è sufficiente. «A Walked line unlike a drawn line can never be erased», si legge in uno dei suoi wall paintings (32 walks map 1971-2012). Una linea a volte annodata o incisa ma sempre discreta e tenace, a immagine fedele del suo artefice.