Meno noto di Francis Bacon e Lucien Freud e tuttavia membro fondamentale della trimurti del contemporaneo britannico, Richard Hamilton (1922-2011) ha conquistato Londra, che gli dedica un vero e proprio piccolo festival. Il nucleo è una mostra «definitiva» alla Tate (Modern, non Britain, benché l’artista fosse londinese: segno del suo aver trasceso i confini nazionali), cui si abbinano altri due momenti più ridotti in scala e ambizione, alla Alan Cristea Gallery e all’Ica (Institute of contemporary arts). Niente di smisurato per una figura che forse ora comincerà a godere di una notorietà proporzionale alla sua importanza: quella di essere stato il primo artista britannico ad abbracciare concettualismo e tecnologia digitale. Oltre ad aver coniato per primo il termine «pop art», naturalmente.

Inventario universale

Con la sua produzione che ha coperto sessant’anni, Hamilton si è lasciato dietro un enorme corpus di opere segnato da un’irrequietezza tecnica sul filo della bulimia, ma anche da altrettanto ragionare teorico. E proprio questa propensione teoretica lo porterà a compiere le rigorose e approfondite analisi che, all’interno dell’Independent Group – collettivo aggregatosi alla fine degli anni Cinquanta con lo scopo di osservare e commentare lo sviluppo sociale del secondo dopoguerra – lo porterà a formalizzare gli aspetti costitutivi del pop in arte. Di qui la sua celebre quanto icastica definizione di arte pop come «popolare, transitoria, di consumo, a basso costo, prodotta in serie, giovane, perfida, sexy, a effetto, glamorous e big business» da lui formulata in una lettera agli architetti Alison e Peter Smithson.

Predatore insaziabile d’immagini direttamente provenienti dalla cultura popolare che prima e meglio di altri aveva saputo definire teoricamente oltre che poeticamente, Hamilton era più un artista «per artisti» che un universale comunicatore come Warhol. Pur utilizzando ogni tecnica immaginabile e raggiungendo livelli eccelsi nella grafica, è rimasto sempre fondamentalmente pittore. L’uso quasi forsennato di immagini pubblicitarie, provini fotografici e altro per assemblaggi, collage, quadri, non era mai gratuito e sempre innestato nella grande tradizione delle avanguardie d’inizio Novecento.

L’universo materiale schiusosi negli anni Cinquanta non era per lui un luogo nel quale tuffarsi con l’entusiasmo di un bambino, ma da catalogare con la cura del naturalista (o di inventariare con quella del ragioniere: basti pensare alle polaroid di sé fatte scattare a una pletora di amici e colleghi artisti nell’arco di trent’anni, a cui si è poi ispirato Julian Schnabel). Mentre lo spingeva verso la ricerca di sempre più intriganti nuove tecnologie, questa curiosità vivace e inestinguibile lo metteva al riparo dal sentimentalismo e dal romanticismo.

La vocazione multidisciplinare lo portò a forzare un aspetto quasi costitutivo della reazione accademica britannica nei confronti dell’arte contemporanea europea nel secondo dopoguerra: il rifiuto di quel che accadeva a Parigi in quanto degenerazione modernista, contaminata da ideologie pericolosamente libertarie. Da qui il suo rigetto nei confronti della chiusura e del provincialismo nazionali, le esplorazioni di altre situazioni europee, i rapporti d’amicizia e collaborazione con alcune tra le più importanti figure dell’arte contemporanea mondiale. Ne è testimonianza più evidente l’autentica venerazione nutrita per Marcel Duchamp, col quale ebbe un sodalizio, assieme alle amicizie con artisti americani ed europei, da Roy Lichtenstein a Dieter Roth.

Proprio di Duchamp sarebbe diventato il campione e sponsor principale, in un lungo commercio che avrebbe prodotto, tra le altre cose, la sua meticolosa e capillare ricostruzione (doveva essere esibito in mostra, ma era impossibile aviotrasportarlo) del Grande Vetro, un pezzo duchampiano particolarmente fragile e complesso.

Un ironico disagio

Un’ubiquità, la sua, sempre acuta e mai grossolana: è a suo agio in mezzo a installazioni architettoniche come nella grande letteratura novecentesca (ha letto l’Ulisse di Joyce per decenni e, come un novello Doré, fin dal 1947 si è dedicato a una ambiziosa opera di illustrazione di quel romanzo); chiosa in maniera acuta e intelligente le velleità del design industriale facendone nature morte, dipinge paesaggi e fiori senza mai perdere l’occasione per inserirci qualche sberleffo, come nei deboli Flower pieces degli anni Settanta, dipinti che dileggiano la rispettabilità borghese ottocentesca con inserimenti scatologici. Poco o nulla è sfuggito al suo sguardo indagatore.

Soprattutto agli inizi, la cifra determinante di Hamilton è proprio questa irrequietezza curiosa nei confronti dell’impatto estetico e sociale che il diluvio di elettrodomestici e altra tecnologia piovuto dagli Stati Uniti stava avendo su una società prostrata dalla guerra. E che troverà, nell’ormai celebre Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing? assemblaggio di tecniche ormai universalmente ritenuto un po’ la magna carta della pop art, l’equivalente visivo della succitata definizione. A rivederlo oggi, questo lavoro «politecnico» non fa che restituirci quel senso di necessità mai fino in fondo soddisfatta, tipico del disagio della civiltà dei consumi: il perenne bicchiere mezzo vuoto dell’essenziale di fronte a quello traboccante del contingente.

Ma se Hamilton è riuscito sempre ad evitare di moralizzare su qualcosa dallo sviluppo ormai inarrestabile, nemmeno vi si è tuffato con la spensieratezza talvolta petulante di altri suoi colleghi, in particolare Peter Blake e David Hockney. Né, contrariamente a questi ultimi, ha resistito al peccato capitale di ammettere l’ingresso del politico e del civile nei suoi lavori. Il commentario sociale di certo gli si addiceva: la stupenda serie Swingeing London, partita da immagini fotogiornalistiche dell’arresto di Mick Jagger e del mercante d’arte Robert Fraser, segna la fine dell’ottimismo materiale degli anni Sessanta in Gran Bretagna.

Quando passa a temi più tragici, l’ironia sorniona scompare. È senz’altro anche grazie a una silenziosa censura governativa se non si conosce come si deve uno dei suoi ritratti più impressionanti, dove il divertimento intellettuale lascia spazio a una potente plasticità drammatica.

Il prigioniero dell’Ira

È l’impressionante dittico The citizen del 1981, il primo di una serie di lavori sui disordini in Irlanda del Nord, il ritratto di uno dei compagni di Bobby Sands che nei primi anni Ottanta digiunarono contro il rifiuto del governo di accordare loro lo status di prigionieri politici. Per protesta, i detenuti indossavano solo delle coperte (da cui il termine blanketman) e rifiutavano di usare i bagni della prigione, con intuibili risultati. Hamilton ne ricava una figura ieratica in mezzo alla propria ribellione escrementizia, quasi un Ecce Homo della lotta armata. E che dire del potente ritratto di Tony Blair (Shock and Awe, 2010)? Il piglio canagliesco dell’ex Primo Ministro cowboy non sembra esattamente il lavoro di un maestro quasi novantenne. In Hamilton la critica sociale, inizialmente carsica, è emersa in superficie alla fine in modo spettacolare.

L’eclettismo, il costante zigzagare da un linguaggio e da un soggetto a un altro, gli hanno inoltre permesso di frequentare con disinvoltura anche gli antichi maestri, come dimostrano gli splendidi ultimi interventi su Tiziano, Courbet e Poussin in Untitled.

Pur rispecchiando l’attrazione che ogni artista subisce nei confronti dei capolavori del passato, man mano che si avvicina la fine, un simile canto del cigno non contraddice per nulla la splendida ossessione che Hamilton ha avuto per la modernità. Il che rende il suo lavoro assai più interessante delle ultime stanche sortite di colleghi come Freud e Hockney, ma anche degli Yba (Young British Artists), ai quali rifiutava la paternità e che, non del tutto sorprendentemente, detestava.

Aperta fino al 26 maggio, la mostra della Tate è la prima a proporre anche le importanti installazioni architettoniche da lui realizzate negli anni Cinquanta e Sessanta, in tandem con l’Ica e la Alan Cristea Gallery (fino al 6 aprile): da Growth and form del 1951, alla Fun house dalla seminale mostra «This is tomorrow» del 1956 presso la Whitechapel Gallery, fino a Treatment room in piena era thatcheriana (1984) e a Lobby, del 1988. All’Ica, fino al 22 marzo, sono visitabili altre due installazioni classiche del periodo, Man, machine and motion e An exhibit.