Immediata è scattata la punizione collettiva: a poche ore dall’attacco di venerdì notte alla porta di Damasco a Gerusalemme il governo israeliano ha ordinato la revoca di tutti i permessi di ingresso nella Città Santa per il mese sacro del Ramadan ai pochi palestinesi residenti in Cisgiordania che lo avevano ottenuto.

Poche ore prima tre palestinesi (Adel Hasan Ahmad Ankoush, 18 anni, Baraa Ibrahim Salih Taha, 18, e Osama Ahmad Dahdouh, 19) hanno accoltellato una poliziotta di 23 anni, Hadas Malka, e tentato di prenderle l’arma. La polizia ha aperto il fuoco e ha ucciso due di loro. La poliziotta è deceduta, il terzo aggressore è stato ferito.

A pagare anche il villaggio di Deir Abu Mashal, dove i tre palestinesi vivevano: l’esercito israeliano ha compiuto un raid e imposto il coprifuoco, annunciando la demolizione delle case delle famiglie dei responsabili, forma di punizione collettiva vietata dal diritto internazionale.

La conferma la dà lo stesso esercito israeliano: «Sono in corso perizie» sulle abitazioni in preparazione della loro distruzione. Gli abitanti di Deir Abu Mashal sono scesi in strada e si sono scontrati con i soldati: decine di manifestanti palestinesi sono rimasti feriti da proiettili di gomma e inalazione di gas, almeno 10 gli arresti.

Feriti anche a Gerusalemme: dopo l’attacco sono cominciati scontri tra polizia israeliana e manifestanti, mentre ai negozi palestinesi veniva imposta la chiusura.

Secondo testimoni, le forze israeliane sono entrate anche nell’ospedale al-Maqasid, sul Monte degli Olivi, alla ricerca di un ferito. In totale sarebbero 350 i palestinesi arrestati.

Ma se gli attacchi con i coltelli, sintomo della profonda frustrazione del popolo palestinese e di una disperazione radicata nello status quo attuale che non prevede via d’uscita dall’occupazione, si susseguono – seppur con minore intensità – dall’ottobre 2015, stavolta c’è un elemento in più: una serie di rivendicazioni si sono accavallate nelle ore seguenti, smentite da Tel Aviv.

Il primo a farsi avanti è stato (fatto mai avvenuto in passato per simili attacchi ) lo Stato Islamico che con un comunicato sull’agenzia Amaq ha definito i tre palestinesi «leoni e soldati del califfato».

Subito è giunta la prima smentita, da parte del movimento islamico Hamas e del partito di sinistra Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina: entrambi si sono attribuiti l’attacco e hanno indicato due ragazzi come membri del Pflp e il terzo come membro di Hamas.

Un atto politico figlio della volontà di separare nettamente, come specificato dalle leadership dei due partiti, «la legittima resistenza palestinese in reazione ai crimini dell’occupazione» dal «terrorismo che si ispira allo Stato Islamico».

Contraria a entrambe le versioni è la polizia israeliana secondo la quale i tre palestinesi non erano membri di alcuna organizzazione «terroristica».

Anche qui una «novità»: Tel Aviv sfrutta da tempo la minaccia Isis, seppure mai sia stata un target, per cementare la narrativa di bastione occidentale dell’islamismo radicale.