Frans Hals, “Gruppo di famiglia in un paesaggio”, circa 1645-’48, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza

Nel «Burlington Magazine» del luglio scorso l’editoriale di apertura passava velocemente in rassegna i diversi allestimenti della Tate Britain dal 2000 a oggi, criticando il primo per l’abbandono del criterio dell’ordine cronologico a favore di quello per temi, e l’ultimo (l’attuale) per il continuo accento, nelle didascalie, sui temi del colonialismo, lo schiavismo, il razzismo e la misoginia. Il classico ordinamento delle pinacoteche d’arte antica per epoche e scuole, sebbene continuamente messo in discussione, sostanzialmente regge dappertutto – nella stessa Tate Britain è stato infatti ripristinato –, ma è ben noto quanto siano crescenti, oggi, le pressioni della culture war o della cancel culture nel mondo anglosassone; ed è altrettanto evidente come per le mostre temporanee sia ancora più forte il rischio di cedere alla tentazione di voler rinnovare profondamente, per non dire ribaltare, i cardini della ricerca storico-artistica.
È anche per queste ragioni che una visita alla mostra Frans Hals in corso alla National Gallery (a cura di Bart Cornelis, fino al 21 gennaio; dal 16 febbraio al 9 giugno, nelle sale del Rijksmusum di Amsterdam) è una bella sorpresa. Si tratta infatti di un’esposizione assolutamente tradizionale, nel senso migliore del termine, a partire dall’icastico titolo, privo di un sottotitolo necessario magari a contestualizzare il pittore per un pubblico di non addetti.
Una rassegna monografica classica come questa, priva di qualunque opera di confronto, che presenta circa 55 dipinti (alcuni sono solo a Londra, altri solo ad Amsterdam) rischiava, certo, nonostante l’altissima qualità delle tele, spesso capolavori assoluti, di risultare noiosa: già Van Gogh, nel 1888, sottolineava infatti come Hals avesse dipinto sempre e solo ritratti; ma – aggiungeva – questo non significa che egli fosse inferiore a Dante, Michelangelo, Raffaello, o agli antichi Greci. Nelle sei sale del percorso questi ritratti sono disposti secondo un criterio che bilancia bene l’ordine cronologico – nella prima e nell’ultima sono, rispettivamente, alcune opere degli esordi e alcune dell’attività estrema – con quello per temi; e che risolve magistralmente il problema della ripetitività.
Una sorta di piccolo mistero avvolge la formazione del maestro: allievo, secondo le fonti, di Karel van Mander (il Vasari olandese, per intendersi, uno di quelli che paradossalmente considerava la ritrattistica un genere minore), prima di trasferirsi ancora bambino a Haarlem, Hals era nato ad Anversa, e nei suoi primi capolavori, del 1612 circa, egli sembra tradire un rapporto con Rubens; e poco più indietro, in realtà, anche con Antonio Moro, del quale non si fa menzione nel catalogo (Yale University Press, pp. 223, £ 30,00 sterline: un’impeccabile overview della figura e della produzione di Hals, senza schede d’opera – forse giustamente – ma con la difficoltà, sfogliandolo, a capire subito cosa sia nella mostra e cosa no).
Certo è che già nel Ritratto di Pieter Cornelisz van der Mersch, datato 1616 (Pittsburgh), Hals è pienamente riconoscibile per quella sua pennellata libera e vibrante che tanto sarebbe piaciuta a Manet, e per il naturalismo immediato e quasi violento. La seconda sala è dedicata all’argomento centrale della mostra, quello della ritrattistica innalzata ad arte nel senso più alto del termine, ovvero alla capacità di Hals di rompere la scala gerarchica dei generi – valida non solo nei paesi con regimi monarchici come Italia e Francia, ma anche nella borghese e democratica Olanda del secolo d’oro – e raggiungere una fama straordinaria già presso i contemporanei pur senza misurarsi mai con la più prestigiosa pittura di storia.
E l’opera-chiave, allora, è il monumentale ritratto di gruppo della Compagnia del capitano Reynier Reael (Rijksmusum), eccezionalmente commissionato dai membri di quella milizia di Amsterdam a un pittore non locale, Hals appunto, che risiedeva a Haarlem, e che lì aveva già dato prova delle sue impareggiabili qualità in quello specifico genere (ricordarsi sempre, per chi va nei Paesi Bassi, che il Frans Hals Museum di Haarlem, dove ne sono esposti diversi, is worth the trip). Il maestro nel 1636 si rifiutò di spostarsi ad Amsterdam per completare il dipinto, iniziato tre anni prima, chiedendo invece che tutti i membri della compagnia si recassero a Haarlem, come era stato originariamente stabilito; l’opera fu allora terminata da Pieter Codde, e il confronto fra la sezione dipinta da Hals e le figure all’estremità destra della tela mostra bene lo scarto fra un fuoriclasse e un comprimario. Nella stessa sala è anche un altro ritratto di gruppo prestato dal museo di Haarlem; e sia detto per inciso: la Ronda di Notte di Rembrandt, del 1642, un dipinto dello stesso genere, è forse superiore per complessità d’invenzione (che lo rende, appunto, quasi un quadro di storia), ma non certo per la resa dell’individualità dei ritrattati.
Hals avrebbe vissuto e lavorato molto a lungo, e la mostra, nell’ultima sala (dove è esposto un capolavoro estremo, del 1664 circa, il Ritratto dei Reggenti dell’ospizio di Haarlem, sempre dal museo di quella città) cerca di dimostrare quanto alta fosse la tenuta del maestro per tutta la sua carriera. È vero; ma è altrettanto vero che gli anni venti e trenta segnarono il momento più felice dell’attività di Hals. Il Cavaliere sorridente della Wallace Collection di Londra, datato 1624 – che troverebbe sempre posto in un’ideale top ten dei ritratti più belli di sempre – è all’altezza della sua fama, con quel miracoloso equilibrio tra velocità esecutiva e puntiglio descrittivo, sia nella veste sia nel volto. Quel capolavoro, appena due anni fa, era già stato al centro, tra le pareti di casa sua, di una squisita, piccola mostra, che gli affiancava altri dodici ritratti di uomini eseguiti da Hals, e sebbene nelle didascalie dell’esposizione ora in corso alla National Gallery si cerchi di ribaltare quanto sostenuto in quell’occasione (per gender equanimity?), è innegabile che quelli maschili, singoli, siano i più riusciti tra i ritratti dell’Olandese.
Questo discorso, peraltro, non è in genere valido per i doppi ritratti a pendant, di coppie sposate, che le vicende della storia hanno spesso separato, e che i curatori della mostra hanno meritoriamente riunito nella quarta sala, chiamandoli a raccolta da Europa e Stati Uniti. E forse non è valido nemmeno per le teste di genere, e gli studi di carattere, che sono l’oggetto della terza sala, dove due delle immagini più indimenticabili (ma qui si sta facendo una selezione durissima) sono la cosiddetta Bohémienne del Louvre (1632 circa), probabilmente una prostituta, e la Malle Babbe di Berlino (1640 circa), una donna che nel 1646 venne rinchiusa in una casa di correzione di Haarlem forse per la sua condotta disdicevole o aggressiva, e che prima di allora dovette essere ritratta da Hals: due indagini sul sorriso allusivo (il primo) e la risata sguaiata (il secondo), da confrontare con gli altri studi di riso, simili ma sempre diversi, della stessa sala.
Nel corpus di Hals non sono troppo numerosi i ritratti di famiglia, ma quello della Thyssen non solo è bellissimo, ma è anche opportunamente impiegato dai curatori per sottolineare l’approccio sorprendente e umanissimo del pittore alla raffigurazione dell’altro (per l’Olanda del Seicento), ovvero, nella fattispecie, di un giovane servitore nero della famiglia: egli venne realmente ritratto da Hals, in tutta la sua individualità e dignità, e non trasformato in una di quelle teste di carattere, divertenti o grottesche, delle quali si è detto. E il pensiero corre allora ai buffoni e ai nani della corte di Filippo IV di Spagna, immortalati da Velázquez (altro grande amore di Manet) in quei commoventi dipinti del Prado che, per rimanere nel Seicento, sono tra i pochi che dialogano alla pari con la ritrattistica di Hals.