Dal 24 al 29 maggio, l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza di Torino dedica al regista e produttore Haile Gerima una retrospettiva integrale – la prima in Italia – a cura di Daniela Ricci che si terrà al il cinema Massimo-MNC nel quadro di un percorso di proiezioni e dialoghi in più tappe intitolato «Visioni del rimosso. Lo sguardo cinematografico sul colonialismo italiano». Regista etiope residente negli Stati Uniti, Gerima è una figura fondamentale del cinema afroamericano e africano in diaspora con un corpus di opere – tuttora in evoluzione, come si vedrà a Torino con lui stesso presente – innervato da uno spirito di resistenza all’oppressione razziale che passa anche e soprattutto dal lavoro sulla memoria e sulla narrazione storica. Di film in film, Gerima ha elaborato un proprio linguaggio cinematografico per denunciare il razzismo e le sue radici schiaviste che è il risultato di un percorso biografico e culturale complesso, attraversato da esperienze e influenze multiple.

Gerima nasce infatti nel 1946 a Gondar in una famiglia che, tra la madre insegnante e narratrice tradizionale e il padre drammaturgo teatrale, ha ben presente il valore performativo della parola e del racconto orale di stampo epico nella costruzione di un’identità personale e collettiva. Lui stesso collabora con la troupe paterna e si dedica a studi teatrali che nel 1967 lo portano alla Goodman School of Drama di Chicago e un paio di anni dopo alla leggendaria scuola di teatro, cinema e televisione della californiana Ucla.

Sono gli anni della contestazione studentesca alla guerra in Vietnam e del Black Power e Gerima si avvicina al cinema attraverso l’amicizia con Larry Clark, finendo per diventare una delle anime della cosiddetta L.A. Rebellion, quel gruppo di cineasti africani o afrodiscendenti tra cui Charles Burnett, Ben Caldwell, Julie Dash che, ispirato dai movimenti di liberazione e dal Terzo Cinema, intrecciò istanze politiche ed estetiche con esiti cinematografici innovativi e rigorosi anche sul piano produttivo. Il suo primo cortometraggio, Hour Glass (1971), nasce dall’amicizia con Clark come esperimento studentesco. Mostra l’emergere di una consapevolezza politica in un giovane giocatore di basket afroamericano che entra in contatto con la teoria postcoloniale e gli scritti di Frantz Fanon.

In un’epoca in cui «al teatro Romeo e Giulietta erano bianchi e i neri facevano da contorno» (così racconta Gerima a Daniela Ricci nel documentario Immaginari in esilio), porre al centro della scena il soggetto razzializzato costituiva il presupposto per un progetto espressivo totalmente nuovo che lui sviluppa nel corso del tempo scegliendo oltretutto di riservare un posto di primo piano alle donne: Child of Resistance (1973) è la rapsodia psichica di una militante in carcere ispirata al regista da un sogno fatto all’indomani dell’arresto di Angela Davis; Bush Mama (1979) segue ancora una volta il risveglio di una coscienza attraverso il ritratto di un’abitante del quartiere-ghetto di Watts a L.A. e il film è magnificamente fotografato dalla 16mm in bianco e nero di Burnett.

Non dimenticare le proprie radici è un mantra per l’autore di Sankofa (1993), film culto sull’atemporalità del razzismo in cui il destino di una fotomodella afroamericana incrocia quello di una schiava ribelle vissuta un secolo prima. Ancora prima di diventare il titolo di una delle sue opere più rappresentative nonché del centro culturale di Washington fondato nel 1966 con Shirikiana Aina, sankofa è una parola akan che invita a conoscere la storia per costruire il futuro a cui Gerima ha improntato tutto il suo percorso sin da Il raccolto dei tremila anni (Mirt Sost Shi Amit), filmato con una cinepresa leggera e attori non professionisti in un villaggio di montagna nel 1974 mentre l’Etiopia era in guerra civile dopo la caduta di Haile Selassie. Con questo suo primo film in amarico, Gerima esprime la volontà di parlare in una lingua e con un linguaggio propri, seguendo la vicenda, cadenzata al ritmo dei gesti del lavoro agricolo, di una famiglia contadina che interpreta se stessa e dando raffigurazione ai travagli e al desiderio di giustizia di tutto un popolo in lotta contro la tirannide feudale, contro la violenza coloniale e l’ordine militare.

Sul finire della decade, inizia ad insegnare nell’università Howard di Washington, nata per favorire l’accesso all’istruzione per le persone razzializzate e per l’elaborazione culturale autonoma da parte della comunità nera. Sono gli anni di Wilmington 10 – Usa 10, 000 (1979), documentario poco noto in Italia che ricostruisce il caso dei «Dieci di Wilmington» in North Carolina, nove uomini neri e una donna bianca incarcerati nel 1972 per ragioni politiche rivelatrici del razzismo e delle distorsioni del sistema giudiziario statunitense. Altra parabola di discriminazione strutturale negli Usa è, qualche anno dopo, Ashes and embers (1982) in cui un reduce della guerra in Vietnam compie un percorso di affrancamento dall’alienazione.

Per il regista di Teza (2008), forse la sua opera più nota in Italia dopo il premio a Venezia, la retrospettiva torinese sarà l’occasione di presentare anche due work in progress che rappresentano un po’ le due anime della sua opera, quella americana e quella etiope. Il primo è il documentario The Maroons che, attraverso un’indagine corale sugli schiavi fuggiaschi tra la Carolina e la Florida, dà forma a una controstoria della liberazione non come concessione dall’alto bensì come processo a cui hanno partecipato tenacemente le stesse persone oppresse che dunque non possono essere ridotte al ruolo di vittime.

Il secondo è l’anteprima mondiale di Black Lions, Roman WolfesI figli di Adua di cui giovedì 26 alle 17,30 al Polo del ’900 (corso Valdocco 4a) sarà proiettata una prima ora seguita da una tavola rotonda che vedrà Gerima dialogare con Mohamed Challouf, Maria Coletti, Leonardo De Franceschi, Fartun Mohamed, Farah Polato, Daniela Ricci, Alessandro Triulzi, Maria Viarengo e Dagmawi Yimer. Si tratta di un progetto nato dopo il completamento di Adwa. An African Victory (1999), film sulla vittoria dell’esercito popolare di Menelik II e Taitù contro le forze d’invasione italiane nel 1896. Il nuovo capitolo prosegue il racconto dell’occupazione italiana dell’Etiopia (1935-1941) e di resistenza della popolazione attraverso interviste e materiali di repertorio. Tra questi ultimi, figura circa un’ora e mezza di cinegiornali Luce, immagini che sono da alcuni anni al centro di un dibattito. Il regista ha richiesto che quanto girato dagli operatori coloniali sia reso oggi accessibile su base non commerciale.

Le immagini dei corpi e dei territori depredati andrebbero così a inserirsi nell’ampio processo oggi in atto di restituzione dei patrimoni acquisiti con la forza. Come spiegano Alessandro Triulzi (Unior) e Paolo Bertella Farnetti (Università di Modena e Reggio Emilia), «l’iniziativa potrebbe confluire in un progetto di piattaforma per la messa in comune di materiali audiovisivi relativi al periodo coloniale che favorirebbe la cooperazione culturale transnazionale, lo studio e la ricerca sulla ‘storia comune’ dell’Italia e dei paesi che ha amministrato».
Si tratterebbe così di attribuire un ruolo importante alle immagini nel processo quanto mai necessario di elaborazione pubblica della storia coloniale italiana, anche e soprattutto, favorendo l’espressione dei soggetti post-coloniali. La loro visione indipendente e parallela alla nostra sarebbe fondamentale per portare alla luce memorie, interrogare archivi e documenti, per dare una forma più giusta e compiuta alla scrittura di una «storia condivisa» che non può avvenire senza una presa d’atto per parte italiana delle proprie responsabilità. Le immagini e la loro lettura da punti di vista «altri» sono più che mai necessarie per far emergere quel rimosso che ancora pesa sulla nostra coscienza.