È senza dubbio merito dell’editore Punto Rosso se in Italia l’opera di György Lukács continua a essere letta e interrogata, nonché incrementata da nuove traduzioni e dalla proposta di testi in gran parte poco noti al pubblico italiano, mentre – duole constatarlo – i grandi libri del pensatore ungherese paiono cadere nell’oblio.

LA COLLANA «Lucacciana» ha proposto di recente una nuova raccolta di contributi sotto il titolo eloquente di Dialettica e irrazionalismo. Saggi 1932-1970 (pp. 200, euro 18), per la cura di Antonino Infranca, al cui lavoro instancabile e generoso di traduttore, interprete e studioso si deve la riuscita di questa operazione editoriale. La quale, come lo stesso Infranca sottolinea nelle pagine introduttive, intende presentare nove scritti di varia natura e occasione, pubblicati nell’arco di circa quarant’anni, eppure legati a doppio filo da un’ossessione tematica: quella contrapposizione tra pensiero dialettico e tendenza irrazionalistica attraverso cui Lukács legge non solo lo sviluppo e le traiettorie della filosofia occidentale, ma anche l’emersione e l’egemonia dei fascismi, i nuovi ordini di senso stabiliti dal capitalismo nel secondo dopoguerra e l’ideologia individualistica di una borghesia capace, di volta in volta, di aderire ai processi di erosione dell’uguaglianza sociale.
Non sono poche le pagine de La distruzione della ragione a venire in mente nella lettura di questi saggi, che tuttavia offrono al lettore la possibilità di seguire ampiamente il percorso del filosofo ungherese, dagli scritti sul romanzo storico alla riflessione sulla Democrazia della vita quotidiana, che non solo è il titolo di un lavoro importante della maturità, ma anche il concetto-chiave attraverso cui Lukács rilancia il marxismo in anni in cui già si presagisce il suo tracollo teorico.
Allo stesso modo colpisce la capacità di interpretare i fenomeni nel loro pressoché immediato presentarsi, spostandoli per mezzo dell’analisi su un piano di intelligibilità ulteriore, evidenziandone così le contraddizioni profonde e proponendone quindi un’interpretazione sempre nuova, perché in grado di stabilire connessioni, legami, sintesi.

SI VEDA AD ESEMPIO Il delirio razzista nemico del progresso umano, un saggio degli anni Quaranta in cui Lukács interpreta l’hitlerismo e le sue teorie razziali sia come «dottrina demagogica di dominazione» sia come «inganno di massa» capace di produrre una «suggestione» per mezzo della quale «larghi strati sono divenuti, coscientemente o incoscientemente, i complici attivi o passivi delle atrocità dei nazisti»: il punto dell’analisi è la modalità di attecchimento di un’intera «teoria della barbarie» e «della promozione della barbarie» fondata sull’illogica, irrazionale e mistica attribuzione della purezza, il cui carattere specifico sta nell’aperta lotta per la riduzione dell’intero mondo alla schiavitù e per la supremazia illimitata di una nazione – una modalità di espansione del delirio di strapotenza che ha radici materiali e storiche precise e che non può dirsi certo occasionale. E si veda pure il bellissimo saggio del 1948 sulle strategie difensive della classe borghese, Perché la borghesia ha bisogno della disperazione?, nel quale Lukács legge il nichilismo della coeva cultura letteraria e filosofica come «autosoddisfazione», come snobistica e «severa antipatia nei confronti della società democratica» e dunque come tattica di sopravvivenza tesa a costruire superfici ideologiche e immaginarie abili a nascondere il caos dei conflitti.
Non è dunque un caso che siano gli intellettuali l’oggetto polemico di questi saggi, o, per meglio dire, il compromesso politico di cui una certa cultura, nei momenti di crisi, si è fatta logora interprete. E sono certamente le pagine più mordaci a lasciarlo intendere: in particolare, quelle che tratteggiano la fuga della filosofia e della letteratura da un principio di responsabilità collettiva.

IL LUNGO SCRITTO su Heidegger e sulla sua opera dopo la caduta del fascismo è un altro capitolo decisivo di questa analisi sui rapporti tra irrazionalismo politico e adesione della cultura a un credo reazionario. A tutto ciò Lukács oppone il pensiero dialettico (colto nella linea Goethe-Hegel-Marx), la tensione alla verifica permanente dei suoi presupposti, la capacità di offrire una risposta dinamica al perdurante costituirsi delle contraddizioni.