«Credo che il colpo di stato di Pinochet sia stato per me come se mi avessero incendiato la casa: come se tutti i miei libri, i libri e gli oggetti che amo, le fotografie dei miei amici e della mia famiglia fossero stati improvvisamente dati alle fiamme. E questo fuoco continua a bruciare, sarà sempre con me, parte della mia identità».

Patricio Guzmán, classe 1941, ha iniziato la sua carriera di regista da prima del golpe del 1973, durante il quale è stato imprigionato per due settimane nello stadio di Santiago: «è stata un’esperienza terribilmente umiliante, ci hanno obbligati a spogliarci, e ricordo i cadaveri delle persone per terra e l’isolamento, l’impossibilità di dire qualcosa alle nostre famiglie, che non sapevano cosa stesse succedendo. Poi, quando hanno capito che non ero legato a nessun partito politico, mi hanno rilasciato. Ma non sapevano che avevo girato La battaglia del Cile…».

La sua cinematografia, da allora, è rimasta legata inestricabilmente a quel momento, e non fa esclusione El boton de nacar, il film che presenta a Berlino, che si pone in continuità con il precedente Nostalgìa de la luz e stabilisce un’ affinità tra elementi apparentemente distanti: i desaparecidos e le sorti degli Indios della Patagonia, il cielo ed il mare, il quarzo millenario ed il bottone di una vittima della dittatura trovato in fondo all’oceano. Se nel film precedente il filo rosso erano le stelle che gli astronomi studiano dal deserto di Atacama, in Cile, qui il filo conduttore è l’acqua come fonte di vita ed al contempo ricettacolo dei nostri «peccati». «L’acqua è senz’altro il leitmotiv di questo film, così come è di fatto un elemento che si trova ovunque. Esiste sul pianeta terra come in tutto il sistema solare, ed oltre esso: ora sappiamo che si trova anche in altre galassie. Per questo motivo credo che siamo circondati da altre forme di vita, che a breve cominceremo a scoprire. Ma poi c’è anche l’aspetto opposto, ciò che gli esseri umani fanno con l’acqua: stiamo prosciugando i laghi e le fonti, contaminando i mari, e non solo con prodotti chimici ma anche con i cadaveri, come viene mostrato nel film.

I suoi film non vengono ancora trasmessi in televisione in Cile, come mai?

Dei quattordici film che ho fatto solo uno, Nostalgia de la luz, è passato in televisione, con le bobine invertite ed all’una di notte. È un fatto che in Cile non abbiamo libertà di stampa, libertà di proiettare immagini. Il governo stanzia fondi per documentari, ma poi le reti televisive semplicemente si rifiutano di proiettare questi film. Dalla fine della dittatura c’è una paura aleggiante che ha cancellato qualsiasi tentativo concreto di confrontarsi con il passato, di venire a termini con ciò che è successo, una paura è permanente ed immobilizzante. Gli unici che cercano di scavare nel passato sono le famiglie dei desaparecidos, che si battono per capire cosa realmente sia accaduto. Ogni tanto trovano il supporto di qualche magistrato o giornalista, ma vengono per lo più tenuti fuori dalle scene e dall’attenzione della gente. Per questo a distanza di quarant’anni il paese non ha ancora superato il colpo di stato, né la storia terribile ad esso connessa. Si è calcolato che siano circa 40.000 le persone che sono state torturate, ma il giudice Guzmán – il magistrato a capo delle indagini – ha detto che bisogna aggiungere cinque persone ad ognuna che è scomparsa: la famiglia e gli amici che hanno sofferto e che in qualche modo sono anch’essi stati sottoposti a tortura, non sapendo cosa sia successo ai loro cari. Per cui potremmo dire che sono state torturate circa 500 mila persone. Il Cile è un mito di benessere, ma d’altro canto è il paese con il più alto tasso di diseguaglianza in tutta l’ America Latina; il governo ha cercato di porvi un rimedio, ma allo stesso tempo abbiamo ancora la costituzione scritta da Pinochet nel 1986, tutta concentrata sul combattere il «nemico interno», basata su una mentalità da guerra fredda che non abbiamo ancora superato.

È sua la voce narrante del film? 

Si, perché è una storia molto personale, e credo che se si vuole raccontare una vicenda così bisogna anche essere la voce che il pubblico sente. Per questo il film non avrà una voice over nelle proiezioni in paesi stranieri, ma tassativamente i sottotitoli, così si potrà sempre sentire la mia voce. Ma credo anche che allo stesso tempo il mio sia un film universale: le stesse cose accadute in Cile sono successe in molte parti del mondo: qui in Germania, o in Africa, o nel Medio Oriente…

El buton de nacar e Nostalgìa de la luz sono accomunati da un fortissimo bisogno di memoria.

Mi sento in qualche modo come uno di quegli insetti preistorici che restano intrappolati nell’ambra per millenni, e non credo che sarò mai in grado di emergere da questa capsula del tempo. Nella mia mente, nella mia coscienza, il colpo di stato continua ad esistere. Credo che il tempo sia un qualcosa di molto soggettivo, e per me il golpe potrebbe essere stato un mese o addirittura una settimana fa, non mi sento assolutamente come se fossero trascorsi quarant’anni, non sento quel genere di distanza. E non cerco affatto di sfuggire a questa sensazione, perché mi da l’energia per perseguire una missione molto importante, di fare in modo che il passato non venga mai dimenticato, «messo a riposo». Non saremo mai in grado di intraprendere il sentiero che ci conduce al futuro se abbandoniamo il nostro passato. Passato e futuro sono legati in modo indissolubile. E questa è la vera forza che guida ciò che faccio.