La luce passa attraverso le foglie fitte del grande fico: luci e ombre come su una tela impressionista. Pomeriggio d’estate a Ronta, frazione di Cesena nella casa dove i genitori di Guido Guidi (Cesena 1941) si trasferirono all’inizio degli anni Sessanta. Il cinguettìo di picchi, passeri, merli è intervallato dal ritmo costante della velocità delle vetture che sfrecciano sull’autostrada che taglia in due il terreno. In direzione dei filari di piante del vicino, sulla linea di confine, sorge il capanno per gli attrezzi agricoli con il suo contenuto di oggetti dimenticati, vecchi, rotti raccolti dal grande interprete della marginalità dello sguardo. «È una sala di posa funzionale al lavoro che devo, anzi voglio fare – afferma Guidi, concludendo la frase con una risata – Fotografo tutto quello che è stato scartato, rimanendo in attesa di essere gettato nella spazzatura. Non è che se prendo un bastone e lo fotografo lo riporto in vita, però in qualche modo potrebbe essere che qualcun altro lo prenda – visto che l’ho fotografato – e lo metta in un museo». Il «concettuale naïf», come lo definì Jean Claude Lemagny, è seduto accanto al tavolo all’esterno della casa. Dà le spalle alla porta a vetri del suo studio-archivio: la camera oscura è nella stanzetta adiacente con le bacinelle, l’ingranditore, i guanti di gomma gialla appesi al filo insieme agli appunti. Sarebbe bello indugiare sui foglietti, una sorta di «pizzini» sparsi in giro in quella che un tempo era la stalla. Appese da qualche parte anche un paio di mascherine azzurre a memoria della realtà del momento, mentre sui piani di lavoro le scatole con le fotografie documentano un’attività costante, insieme a cavalletti, cornici allineate negli scaffali, macchine fotografiche: Guidi usa pure l’Hasselblad e il banco ottico Deardorff 8×10.

L’archivio è sempre una fonte di sorprese, anche per lui. Ne parla mostrando il dummy e una copia del libro non rilegato di Tra l’altro 1976-81, in uscita ad agosto per l’editore londinese Michael Mack che dal 2013 si occupa del suo lavoro. Nelle foto compare anche questa casa con i suoi frammenti di vita quotidiana, a cominciare da quella in copertina: il bastone per tenere i fili del bucato che è sul terrazzo. Il libro fotografico ha un ruolo determinante per Guidi, è complementare alla fotografia da lui considerata «non come oggetto finito, ma come percorso che traduce il senso di precarietà». Il suo ultimo riconoscimento, il Premio Hemingway 2020 (la sezione fotografica è curata da Italo Zannier), gli è appena stato assegnato per il volume In Sardegna 1974, 2011 (2019) pubblicato da Mack Books in coproduzione con il Man di Nuoro. A consegnarlo virtualmente il 27 giugno scorso (per il Covid-19, la 36/a edizione del premio letterario di Lignano Sabbiadoro, organizzato con la Fondazione Pordenonelegge.it, si è svolta online) è stato lo stesso Zannier che fu suo docente di storia della fotografia durante l’anno in cui frequentò (senza finirla) la scuola di disegno industriale allo Iuav di Venezia. Tra le copie poggiate sul tavolo, accanto al recipiente con le albicocche offerte dalla signora Marta (la moglie del fotografo si occupa anche dell’archivio) ci sono Dietro casa, Lunario 1968-1999 e In Veneto 1984-89.
L’andamento del tempo oscilla tra lontano e vicino. Nella dialettica degli opposti il cane (è una femmina e si chiama Lea) abbaia: è il suo saluto di benvenuto o di arrivederci. Sparsi qua e là vecchi segnali stradali arrugginiti indicano la direzione. Si va, si torna.

Qual è il fascino nel fotografare gli scarti?
Nel ’79, a Venezia, incontrai Nathan Lyons, fondatore della rivista Afterimage, in polemica con Image, quella classica di Aperture e di Visual Studies Workshop. Mi ero iscritto al suo corso di fotografia. Lyons era uno di quei maestri con l’aureola: ci parlò a lungo, dandoci degli «incentivi». Dovevamo uscire per fotografare quello che non avremmo mai fotografato, poi interrompere la sequenza, mettere il tappo (sull’obiettivo) e scattare un fotogramma a vuoto, riaprire la seduta e fotografare senza guardare, quindi fotografare guardando le stesse cose. Una serie di esercizi che tendevano a uscire dalla convenzione, dal déjà-vu. Una delle ragioni fondamentali per cui mi sono accostato alla fotografia è proprio perché la fotografia mi permette di uscire dal regolamento e dalla convenzione. Dello scarto mi interessa il fatto stesso che sia un oggetto non considerato. Non viene messo nel salotto. Io stesso non lo metto nello studio perché fa polvere. Di questi oggetti ne ho raccolti parecchi nel «capannino» dove ci sono anche gli attrezzi agricoli. Adesso, in epoca di coronavirus, non potendo andare fuori ne ho approfittato per fotografarli. C’è anche il fatto che mio padre, come mio nonno, faceva il falegname e conservava tutti i pezzi di legno, buoni per essere riutilizzati in un secondo tempo. Ci sono un’infinità di questi pezzi di legno. Mio padre, poi, era mezzo contadino: c’è anche la zappa, la falce, il forcale, la sega lunga – «sgon» – con due prese per tagliare i tronchi.

Coltivare la memoria vuol dire anche scoprire nell’archivio delle foto dimenticate, come nel nuovo libro «Tra l’altro 1976-81»…

Un giorno Marcello Galvani, che era venuto per mettere ordine nell’archivio, trovò dentro le «sporte» per la spesa un pacco enorme di negativi 6×6 e uno un po’ più piccolo di 24×36. Tranne cinque stampe e due provini erano solo negativi. Immagini sviluppate ma mai stampate. Mi chiese di poterle stampare, mentre Michael (Mack) ha insistito per fare un libro diverso dagli altri. Di molte di quelle fotografie non ricordo nulla, riconosco solo alcuni amici, questa casa. Erano appunti visivi. Foto scattate gironzolando e rompendo le scatole agli amici, come facevo negli anni ‘70. C’è anche la famiglia: mio padre, mia madre, ci sono anch’io, mia figlia (Anna) da piccola, il coniglio, i gatti e anche altri appunti fuori casa, lungo la Romea, il mare a Cesenatico. Non ho ancora capito bene che libro sia, gli altri li sento molto vicini perché li ho covati di più, proprio nel senso di covare le uova. Diciamo che ho preso questo lavoro con curiosità, anche per capire dove stavo andando allora e dove vado adesso. Continuo a cercare. Non ho mai avuto un programma. Il fotografo è uno che non percorre la strada in linea retta, ma a zig zag, anche per non farsi cogliere da un eventuale cecchino! (ride)

Come ci si relaziona al libro fotografico rispetto alla singola immagine?
Il libro, rispetto alla fotografia singola, si avvale della possibilità di mettere in sincronia, in sequenza fissa, delle fotografie che altrimenti sarebbero sciolte. Le pagine sono due – possono essere anche tre o di più, ma è un artificio. Come diceva un frate, sono due come le ali di una farfalla. Sono speculari quindi devono entrare in dialogo, una aiuta l’altra, oppure una si mette in conflitto con l’altra: tesi e antitesi. Però di fatto lo sguardo passa dall’una all’altra attraverso corsie preferenziali. In sostanza le pagine devono essere autonome ma anche in dialogo. Non solo loro due, anche con la pagina che precede. Poi c’è un inizio e una fine, anche se io personalmente sfoglio il libro dalla fine. Ogni tanto c’è una fotografia che ha un’ideale funzione di richiamo. È un andare e venire di artifici che non si hanno nella singola fotografia. Mi piacerebbe realizzare libri come Antonioni nel piano-sequenza alla fine di Professione reporter, cioè senza montaggio, con l’interno della stanza dove si vede il reporter e poi la macchina da presa gira attraverso le sbarre della finestra con un artificio meccanico artigianale e poi guarda il cortile, gira intorno al cortile, etc. Mostrare il processo serve a me per capire meglio e, forse, servirà anche a qualcun altro.