Di quel processo di svuotamento e trasformazione dell’antichità classica in mummia urbana o letteraria a beneficio del pubblico, la bulimia di riscritture di miti classici è il paradigma perfetto.

SE È VERO che strategia di sopravvivenza delle figure mitiche è, come suggeriva Hans Blumenberg, il criterio della modificabilità (per cui intorno al nucleo fondante dei personaggi paradigmatici si affollano griglie di ricezione sempre nuove), il senso e la portata di queste riletture appare, nel migliore dei casi, l’onesto intrattenimento: inteso come oracolo teorico o generatore di aforismi per tutti i gusti, saccheggiato come risorsa economica a uso e consumo dell’immediato presente o consegnato allo sfarinamento culturalista e citazionista, questo mondo classico appare neutralizzato e inerte, inefficace per consunzione e inflazione delle iniziative. Di tutt’altra tempra è l’ultimo lavoro di Piero Bevilacqua, Il volo e il labirinto. Miti greci che raccontano il nostro tempo (Castelvecchi, pp. 184, euro 18,50), un affondo nel cuore bruciante di un’antichità cupa e tormentata, attraversata da violenze e conflitti, esemplare più per le ombre sinistre che proietta che per la luminosità dei suoi eroi. Si capisce subito che, nelle intenzioni dell’autore, l’esperienza del mondo classico non è facilmente pacificatrice: gli antichi sono convocati a turbare i nostri sonni e si animano di un’intensità di vita sempre in bilico fra barbarie e scoperta di una bellezza inattesa. È lo scandalo dell’iniquità e della guerra lo specchio oscuro su cui storie e figure paradigmatiche riflettono eroismo e infamia, miseria e grandezza, coraggio e smarrimento.

UOMINI ED EROI agiscono in un mondo tormentato e diviso (una Grecia che «ribolle di odi e litigi»), percorso dalla lotta tra i sessi e dal dominio brutale dei vincitori sui vinti, cui non è consentito neanche il riscatto della memoria («Nessuno ti ascolterà, il tuo racconto è mutilo, non hai una storia da narrare. Gli sconfitti non ne hanno»: questo ribatte, nel suo spregevole cinismo, Odisseo a un mite e innocuo Ciclope).
Attraversare questo universo dilaniato demistifica la favola edificante di una Grecia apollinea e proietta il lettore in un’antichità che sa essere anche plumbea e crudele, sotto un cielo che sarebbe più pietoso se fosse vuoto. Bevilacqua maneggia sapientemente questa materia incandescente e fa stridere insieme passato e presente con una potenza che richiama la «reversibilità» fortiniana: una operazione di traduzione, di trasmissione e trapianto, una reversibilità delle distanze e delle differenze, che riguarda da vicino noi stessi e le vicende di popoli lontani nello spazio e nel tempo.

Restituita al mondo antico la sua opacità, l’autore lascia intravedere, attraverso il racconto della guerra di Troia, la devastazione dei tanti teatri di guerra della nostra Europa post-democratica, richiamando, nel racconto degli stupri seriali compiuti da Zeus e dai compagni di Odisseo in attesa di ritornare alle loro mogli, lo scandalo presente di quelle narrazioni indecenti che uniscono le donne vittime di violenza al loro assassino nel sacro nome della famiglia. E in una pagina quasi leopardiana, evocativa dell’impegno dell’autore per l’ambiente e il paesaggio contro i califfi del biocapitalismo, dedicata a un Eracle vecchio e stanco, si adombra il disastro apocalittico del progressivo assassinio dell’ambiente pervicacemente perseguito dagli uomini: «Non c’è più un nemico da combattere, i nuovi uomini sono in lotta contro la vita. È l’umana semenza che si è guastata e nessuno può rimediare».

Così, con una operazione non banale, il mondo antico diviene laboratorio vitale per leggere il presente e riannodare i fili di quella tradizione di pensiero e di prassi che nel mutamento trova la sua stessa ragion d’essere.

QUESTO STRAORDINARIO condensato di cultura e impegno civile regala al lettore la pagina struggente della morte di Euridice. Non c’è rifugio e non c’è ritorno dalle tenebre. L’interruzione del rapporto è definitiva e neppure il canto può trovare all’intollerabile un posto nella bellezza («né tu né alcun dio potete proteggerci dalla vita»). Bevilacqua sa trasmettere tutto questo in un racconto insieme intimo e potente. Cerca le strade dell’agire collettivo in un patrimonio vivo di memoria mitica, di arte, di civiltà. Riscopre quanto siano contorte le nostre radici. Enigmi più che soluzioni. Restituisce quel momento prezioso e breve in cui diverse strade sembrano possibili e aperte alla storia.