L’ultima volta, al Forte di Bard, minacciava neve. Qualche mese prima erano state girate le scene di Avengers. Age of Ultron. Celebravano l’evento i cartelloni lungo la strada ma non ancora i pupazzoni di Hulk e Iron Man all’ingresso del Forte, come oggi. Mi ricordano il brutto Attacco al forte di Bard dipinto da Taunay e Bidauld ora al Museo del Risorgimento di Milano, con un Napoleone dinoccolato come uno spaventapasseri che dorme, tanto è sicuro di sé, mentre nel Forte sullo sfondo fumano i cannoni e poco più avanti, inerpicato sul sentiero, ci doveva essere Stendhal nel suo primo viaggio italiano… vecchi e nuovi supereroi.
L’occasione per tornare è la mostra Il Guercino Opere da quadrerie e collezioni del Seicento, a cura di Elena Rossoni e Luisa Berretti (fino al 30 giugno), dove si ragiona delle numerose variabili che si frappongono nel rapporto tra un artista e il cliente che di lui e delle sue opere si serve. È un’esposizione piccola (se non ho contato male: 22 dipinti, 11 disegni e 21 incisioni), che cerca di sintetizzare un argomento vasto e complicato, approfondito da una moltitudine di studi anche recenti, come la monografia di Nicholas Turner del 2017, ma già tracciato in alcune pagine del magistrale ritratto della committenza in epoca barocca che è Mecenati e pittori di Francis Haskell. Un libro del 1966, stranamente mai citato nel catalogo della mostra (Forte di Bard editore, pp. 208, euro 24,00).
La prima affermazione di Giovan Francesco Barbieri (1591-1666) detto, per un evidente strabismo, il Guercino, è locale. Cento è il luogo dove si avviano i primi rapporti fondamentali, come quello con padre Antonio Mirandola. Il superiore del monastero dello Spirito Santo traghetta il giovane artista prima verso la committenza centese, poi sulla piazza bolognese. Nel luglio 1617, dai portici di una Bologna che si immagina mollemente arresa al caldo, Ludovico Carracci traccia una cronaca artistica in una missiva al poeta e collezionista Ferrante Carli: è arrivato Domenichino; Guido Reni è partito per Mantova, chiamato dal duca; è tornato Lionello Spada ed «è pur giunto», per eseguire alcuni quadri per l’arcivescovo, il cardinal Alessandro Ludovisi, «un messer Giovan Francesco da Cento». La patria del giovane pittore non è solo un’indicazione di massima, ma una constatazione, come un codice fiscale che ne definisce gli ascendenti nelle trame fittissime delle scuole lungo la Valpadana. E Guercino, in città, «si porta eroicamente», tanto che – scriverà Ludovico nell’ottobre dello stesso anno – «fa rimanere stupiti li primi pittori» che in quel momento a Bologna certo non mancano.
Guercino brucia le tappe con la forza del proprio «tingere», esorbitando la teatralità dei sentimenti, usando la luce per deflagrare le forme giustapposte in un intrico di carni e tessuti. È un momento in cui – lo dirà lui stesso – «bulliva il pignattone». È il Guercino più riconoscibile: per il cardinal Ludovisi dipinge il San Pietro che resuscita Tabita; per il legato di Ferrara, il cardinale genovese Jacopo Serra, realizza pochi mesi dopo il San Sebastiano curato da Irene. Entrambi i quadri, oggi a Bard dalla Pinacoteca Nazionale di Bologna, testimoniano del rapporto con due tra i più rilevanti committenti di questa fase.
Le opere del talento centese sono presto considerate degne di diventare doni diplomatici, immesse nei giochi che regolano rapporti umani e politici dove l’amore per l’arte è anche un elemento nella creazione della propria immagine pubblica. Il cardinal Ludovisi, per esempio, offre Il ritorno del figliol prodigo (ora in Galleria Sabauda) al duca Carlo Emanuele I; il mosaicista Marcello Provenzali dona l’Erminia e Tancredi (ora alla Doria Pamphilj) al cardinal Stefano Pignatelli; la Comunità centese omaggia di volta in volta i nuovi legati pontifici di Ferrara e Bologna con i quadri del loro concittadino, e si potrebbe andare avanti a lungo. Il formato rettangolare, prediletto per queste commissioni private, permette al pittore di ampliare lo sguardo allargandolo all’ambientazione, e di padroneggiare un flusso narrativo capace di propagarsi non solo nello spazio della tela ma anche al di fuori, coinvolgendo l’osservatore, tanto abituato al teatro barocco, con la retorica dei gesti, con la resa dei rilievi attraverso la luce e l’uso di costumi contemporanei.
A Roma Guercino giunge nel maggio 1621. È chiamato dal suo protettore Alessandro Ludovisi, divenuto papa Gregorio XV. Arriva nella capitale pontificia anticipato da una fama che i capolavori da manuale di quegli anni – l’Aurora nel casino del cardinal nipote Ludovico Ludovisi e il Seppellimento di Santa Petronilla per San Pietro, soprattutto – alimentarono ulteriormente. Se è complicato stringere, da qui in poi diventa quasi impossibile fare un elenco completo delle opere richieste, delle commissioni portate a termine o delle tele realizzate anche in assenza di commesse. Ne era consapevole lo stesso Guercino, nella sua bottega brulicante di aiuti e allievi, ma anche d’intermediari, agenti, fiduciari che gestivano e ampliavano la rete dei commerci. Mentre monta la considerazione e la sua pittura diventa oggetto di desiderio, le figure dei suoi dipinti sono sempre più isolate nello spazio e il racconto si fa più intimo, toccando corde sentimentali diverse dalle precedenti, cercando una sintonia con la tensione spirituale e ideale di Reni e Domenichino.
Da Guido, anzi – se crediamo a Malvasia –, Guercino impara anche a farsi ben pagare: «per le figure intiere io sono riconosciuto per lo meno di cento ducatoni d’argento per ciascuna, per le mezze cinquanta». Un prezzo stabilito che, pragmaticamente, toglieva qualunque ambiguità nel rapporto tra artista e committente. Una sistematizzazione utile soprattutto negli anni della maturità, quando la produzione di quadri da collezione scavalcò quella delle pale d’altare. Il «conto di tutti li denari che si tireranno e guadagnerano», e quindi i nomi dei committenti – 301, di cui 82 intermediari –, sono annotati dal fratello Paolo Antonio in un registro compilato dal gennaio 1629. Conservato nella Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, il Libro dei conti è un documento centrale anche per la comprensione delle dinamiche delle botteghe in questa parte di Seicento. Sarebbe stato bello vederlo in mostra accanto ad alcune delle opere esposte, come il Saul contro David pagato dal cardinal legato di Bologna nel 1646, l’Atlante per il principe Lorenzo de’ Medici o la Sibilla Samia saldata da Ippolito Cattani nel 1651. E a proposito, un altro punctum dolens è la mancanza, nelle schede del catalogo, dell’elenco puntuale dei passaggi collezionistici delle opere. Se crediamo che i documenti figurativi esibiscano come pochi altri prodotti umani le tracce dei cambiamenti di gusto, uno specchietto come quello, pur impegnativo, è tanto importante, soprattutto in una mostra che fa del rapporto tra un artista e i suoi collezionisti il tema centrale.
C’è, infine, un Guercino collezionista di se stesso. La Maddalena e il San Paolo eremita, parte di un ciclo preparato per la propria casa di via Sant’Alò a Bologna, erano forse, come si dice in catalogo, delle testimonianze di bravura da mostrare agli ospiti. Del resto, visite importanti nelle stanze del pittore non mancarono mai, da Diego Velázquez alla regina Maria Cristina di Svezia. Invece i disegni, moltissimi, alcuni dei capolavori assoluti, sono intesi da Guercino come strumenti di studio e non sono perciò mai stati destinati, lui in vita, alla commercializzazione. L’artista li conservava rilegati in veri e propri album, con un atteggiamento che sembra avere più confronti nelle collezioni private contemporanee che nelle botteghe dei colleghi.