Espone il suo punto di vista meticolosamente, perché riguarda un mondo in profonda e spesso tumultuosa trasformazione. Sa che ci sono in campo diritti negati e rivendicati, assetti di potere locali e globali. Saskia Sassen non ha dubbi: l’attuale economia mondiale capitalistica si fonda su meccanismi di integrazione e sul suo corrispettivo, selettivo, di espulsione. È questo, forse, il lascito amaro di una globalizzazione che l’economista e sociologa di origine olandese ha attentamente studiato. Il suo ultimo volume, Espulsioni (Il Mulino) riprende molti dei temi da lei affrontati – la perdita di sovranità nazionale, le migrazioni come fenomeno costante e tuttavia incentivato da un mondo sempre più interdipendente, la produzione dello spazio urbano come laboratorio nella definizione dei rapporti di potere globali -, messi in tensione positiva con le tesi del capitalismo estrattivo. Non solo le risorse naturali che vengono depredate e di cui si appropriano le imprese globali, ma anche elementi intangibili come la biodiversità, il sapere, la conoscenza, i dati.

L’intervista è stata realizzata durante la recente summer school bolognese Planetary Urbanscapes e prova a fornire alcune istantanee e delle chiavi di lettura sull’attuale passaggio storico. Sassen definisce le formazioni di potere contemporaneo come dei «mostri» che si sviluppano e muovono con logiche di difficile penetrabilità. La studiosa pone perciò la necessità di indagarle con un’ottica della complessità e del lungo periodo a partire dalla transizione impostasi negli anni Ottanta forgiando nuovi strumenti analitici e nuovi discorsi politici.

Cosa l’aveva portata negli anni Ottanta a riflettere sul tema della mobilità del lavoro, cifra dirimente dell’oggi?
Quando ho pubblicato il libro The Mobility of Capital and Labor (1988) il tema delle migrazioni non era molto presente nel dibattito pubblico. Il mio interesse è sempre stato quello di scoprire elementi molto attivi ma che non vengono riconosciuti. Cerco le cose che «non si vedono» ma che sono in realtà molto presenti. Ci sono una serie di fenomeni estremamente materiali ma «invisibili». Quel libro iniziava proprio da questo spunto. Il soggetto della migrazione allora era molto diverso da ciò che è oggi, esisteva ma non veniva riconosciuto. Il mio lavoro non partiva dai migranti in quanto tali, ma dall’analisi di una serie di funzioni e trasformazioni economiche, dalle necessità dei grandi attori economici. Ho sempre cercato di individuare quali siano i cambiamenti che si sono prodotti in determinati luoghi e che spingono alla migrazione. Non siamo infatti di fronte a espulsioni dirette e immediate, ma a processi che ad esempio partono dalla costruzione di grandi miniere, che progressivamente distruggono le condizioni di riproduzione della natura, dell’acqua come della terra, e costringono gli abitanti di quei luoghi a spostarsi, spesso verso le periferie delle grandi città. Possiamo dire che queste persone sono state sfrattate dalle loro condizioni di vita. Un altro esempio: quando gli Stati Uniti hanno invaso la Repubblica Domenicana l’esercito si è installato in quel paese e gli abitanti locali si sono fatti carico dei bisogni di quei soldati. Quando l’esercito se n’è andato, molti dominicani si sono detti: «Ho potuto sostentarli qui, posso farlo anche a New York, o a Miami ecc…». È un’immagine che uso per mostrare come la migrazione spesso inizi ai margini delle operazioni compiute dalle grandi corporation o dai militari. Per capire il fenomeno, penso sia necessario considerare sempre questo tipo di storie e non focalizzarsi solo sul singolo migrante.

Le migrazioni sono intimamente intrecciate anche con le dinamiche prodotte dalla città globale e con le trasformazioni dello Stato, del quale anni fa lei ha segnalato il processo di de-nazionalizzazione. Volevo chiederle come questo impianto analitico si misura con la recente emersione di fenomeni di risorgenza politica dello Stato-nazione.
C’è in atto un processo regressivo, una specie di nuovo nazionalismo, ma se si cerca di capire come funzionano le economie contemporanee ci si rende conto che funzionano attraverso una inscindibile interdipendenza. Allora il discorso politico nazionale e nazionalista non è soltanto pericoloso, ma proprio limitato, stupido. Lo si è visto con Trump: dopo grandi proclami e promesse ha iniziato a ritrattare su tutto, per il semplice motivo che il sistema non funziona come lui lo descrive. Le interdipendenze sono troppo grandi. Io credo che molte delle cose che avevo detto in Le città globali (1997) siano ancora in campo e che quella nozione indichi anche che le città sono i vettori attivi della globalizzazione e catturano molto meglio l’internazionalizzazione delle economie rispetto alle altre aree dei paesi. Bisogna inoltre capire che i centri finanziari non sono indipendenti, funzionano solo nell’interconnessione, indicano una specie di geografia, una sub-geografia del territorio con una propria territorialità. E quello della finanza è semplicemente il modello più forte di un meccanismo che è però attivo anche in tutti gli altri settori. Nonostante la finanza sia un qualcosa di molto astratto, c’è una grossa materialità in quanto sta avvenendo, tutte le condizioni e i bisogni necessari per rendere operativo questo progetto che di per sé non è materiale. Ogni micro frazione di secondo nell’infrastruttura digitale ha un’importanza enorme. Un esempio interessante è quello di una linea di fibra ottica che collega i centri finanziari di New York e Chicago che aveva una piccola deviazione curvilinea al suo interno. Sono stati spesi due miliardi di dollari per eliminare quella curvatura, il tutto per poter guadagnare una frazione di secondo. Questo indica ancora una volta che la materialità è centrale in settori che vediamo come non materiali.

Lei ha spesso insistito sul fatto che le città globali sono anche luoghi di frontiera dove i soggetti «senza voce» possono trovare una loro parte. Nel 2011-2013 il ciclo di occupazioni di spazi urbani, da piazza Tahrir a Occupy Wall Street a Puerta del Sol a Madrid, sembrava in qualche modo confermare questa tendenza. Come ha letto la traiettoria di quei movimenti?
Credo che in qualche modo simili fenomeni siano sempre esistiti, perché alcuni spazi urbani si prestano a questo tipo di manifestazioni. Ciò che cambia sono gli obiettivi. Ma ci sono anche momenti ironici. A New York molti degli spazi che vennero occupati erano comunemente visti come spazi pubblici, ma in realtà erano di proprietà delle grandi corporation giustamente oggetto delle proteste. Queste grandi corporation non hanno agito chiedendo sgomberi forzati, anzi non hanno proprio detto nulla. Hanno capito che la cosa migliore che potevano fare era evitare di rivendicare quelli come propri spazi privati. A me pare che non ci fosse un discorso forte dentro quelle mobilitazioni, non si era riflettuto sul fatto che quegli spazi di proprietà di grandi corporation erano spazi della città: è stata un’occasione persa e le corporation si sono mosse con molta intelligenza nel non intervenire. Inoltre, credo che siamo in un momento molto difficile, e che degli strumenti che funzionavano in passato oggi non vadano più bene. Una volta anche le grandi imprese sentivano un qualche senso di obbligo di appartenenza a un territorio, ma oggi non lo sentono più. È una storia che inizia negli anni Ottanta, e ci sono cambiamenti molto importanti – la privatizzazione, la de-regolamentazione, la globalizzazione. Non si capisce ancora il significato profondo di questi cambiamenti. Penso sia davvero difficile, anche per l’attivismo più acuto, penetrare in profondità nelle complesse logiche sistemiche. Il problema è svestirci di ciò che ci era familiare. Un conto è se ci confrontiamo, ad esempio, con un governo municipale, altro è se vogliamo confrontarci col grande business, allora le cose cambiano.

Le grandi corporation raccolgono denaro anche grazie a governi che sono sempre più loro dipendenti. Come possiamo contestarle?
Un conto è se ragioniamo su piccoli contesti, ma se pensiamo a New York, Chicago, Londra, Parigi, Hong Kong, queste bellissime città, piene di vita, di turisti…, ma al cui interno sono impiantati sistemi di potere che non vengono mai discussi, per esempio sui media. Non abbiamo nemmeno il linguaggio adatto per provare a descrivere questi nuovi poteri emergenti, dei veri e propri mostri. La maggior parte dei saperi che si sviluppano nelle università sono semplicemente inutili per codificare questi fenomeni e il cittadino medio non è messo in condizione di comprendere ciò che sta davvero succedendo. Anche perché sono cose molto difficili e che non si possono «vedere». La materialità perde la possibilità di essere definita e nominata. Le nuove complesse materialità emergenti spiazzano i nostri schemi, è come se guardassi alla sedia che hai davanti ma quella in realtà non fosse una sedia.