Cina, regione dello Yunnan, un bimbo sta male e in pochi minuti muore tra le braccia della giovane madre Xiwen. Italia, porto di Gioia Tauro, sta per arrivare dall’Oriente una nave stracolma di cibo contraffatto. La polizia ha però avuto una soffiata, sperano così di incastrare Matteo, referente italiano dei trafficanti.

Lui però capisce la trappola, fa allontanare la nave verso altri lidi, salvando il ricco carico. Dopo questa premessa tutta la storia si svolge a Hong Kong (e la storia della città viene didascalicamente sciorinata in pochi secondi). Lì ha sede la multinazionale cinese delle truffe alimentari, lì arriva Matteo, promosso sul campo per la sua fedeltà e il suo acume, oltre alla fortuna, merce rarissima. E trovandoci a Hong Kong la storia non poteva che virare verso il thriller, con Matteo impegnato a dirigere traffici alimentari criminali mentre intorno cominciano a spuntare cadaveri. Solo che Matteo, ruvido puttaniere e criminale incallito, si scioglie di fronte a una cuoca cinese che fa arrivare gli ingredienti da zone non inquinate, Xiwen, appunto.

Barbareschi regista e protagonista, affronta un tema poco praticato al cinema: le sofisticazioni alimentari. Grande intuizione perché siamo ossessionati da risibili trasmissioni tv sulla cucina, ma sono pochi a prendersi la briga di vedere cosa davvero ci viene propinato in tavola. E ci sono festival che hanno aperto finestre sul rapporto tra cinema e cibo, corredati da interi volumi. Facile, è un’esigenza primaria. Solo che bisogna fare i conti con l’industria alimentare, quella che vende latte alla melanina, pesce della zona di Fukushima e stendiamo un velo sui prodotti campani e i disastri provocati dalla camorra e dalle industrie complici del Nord attraverso i rifiuti. Basterebbe questo lodevole intento per salvare il film di Barbareschi nella pletora di stupidaggini che puntualmente affollano il grande schermo.

Comprensibile quindi la sua seccatura, nulla di più, per non essere stato degno di selezione al festival di Roma. Ma comprensibile anche che i selezionatori possano decidere di non volere un film. Ovviamente non conosciamo le ragioni del rifiuto, ma con un po’ di buona volontà si possono enumerare i tanti difetti del film, girato in inglese, e sin qui nulla da dire, ma, nonostante Hong Kong sia stata colonia britannica sino al 1997, perché anche tra loro i cinesi parlano (quasi) sempre inglese? Hong Kong è città adrenalinica per definizione, i film hanno un ritmo forsennato e il thriller ha un suo tratto distintivo che Barbareschi invece stempera, limitandosi al giaccone di pelle nera perennemente indossato dal suo bastardo personaggio che improvvisamente viene risucchiato in un amour fou piuttosto improbabile, che deve anche affrontare un’accusa di omicidio con un’indagine degna della signora in giallo.

In un’intervista Barbareschi ha riferito che Milena Canonero, mitica costumista oscarizzata coinvolta nel film, voleva che venissero interrotte per un po’ le riprese per riscrivere la sceneggiatura come faceva Stanley (Kubrick). Ipotesi respinta al mittente da Barbareschi produttore. Per motivi evidenti di costi. Milena però nel suo essere naif non aveva torto.

Perché quella è la parte più scricchiolante del film che poi vanta Arnaldo Catinari alla fotografia, attori reclutati tra Gran Bretagna (Gary Lewis) e Cina (tra cui la coprotagonista Zhang Jingchu) oltre all’apparizione di Alessandro Haber. Per capire quanto Barbareschi abbia visto bene e lontano sulla questione delle sofisticazioni alimentari e dei danni spaventosi che provocano, basti dire che è considerato il mercato più remunerativo per la criminalità organizzata. Ma tutto è rimasto nell’ambito delle buone intenzioni.