Nella seconda metà degli anni Sessanta, in Messico, l’editore Rafael Giménez e il critico Emmanuel Carballo ebbero la brillante idea di invitare alcuni giovani e promettenti autori a comporre le loro autobiografie, per un libro diventato memorabile, Nuevos escritores mexicanos del siglo XX presentados por sí mismos. Gli autori erano pressoché sconosciuti, con poche pubblicazioni – o con nessuna, come nel caso di Carlos Monsiváis – e tra loro c’erano Salvador Elizondo, Sergio Pitol e Juan García Ponce. La provocazione consisteva non solo nell’incarico in sé ma anche nel fatto che gli autori avevano un’età biografica al di sotto dei trentacinque anni, con vite quindi potenzialmente poco interessanti, almeno dal punto di vista letterario, specie per un genere in cui se si scrive – come disse Otto Weininger – lo si fa perché si è già qualcuno.

Nel 2009, sempre in Messico, «Letras Libres», una delle riviste di critica letteraria più affidabili, decise di ricalcare i passi della precedente iniziativa editoriale e di chiedere a sei giovani autori di scrivere le loro «autobiografie precoci». L’intenzione manifestata era quella di marcare una distanza rispetto al terreno familiare della fiction e di mettere il lettore davanti alle vite reali e letterarie di sei nomi propri. Tra le autrici coinvolte in quel numero monografico c’era Guadalupe Nettel, allora già finalista al Premio Herralde, e proprio quel suo testo remoto e inatteso è all’origine di Il corpo in cui sono nata (La Nuova Frontiera, 2022, bella traduzione di Federica Niola, pp. 192, € 16,90, già proposto da Einaudi nel 2014). Racconta Nettel che, indotti da quell’operazione, i ricordi cominciarono a emergere «come un torrente psicoanalitico» per ricomporsi, nel 2011, nella versione estesa di El cuerpo en que nací per i tipi di Anagrama. Né autobiografia né propriamente romanzo, questo testo privo di solipsismo si avvicina semmai a una auto-narrazione: «Ero cosciente di scrivere una fiction con elementi biografici», vi si legge.

In una epoca bizzarra
Oltre a darci l’opportunità di osservare almeno uno scorcio dell’evoluzione dello spazio autobiografico contemporaneo, Il corpo in cui sono nata ci immerge in un’epoca, secondo Nettel, bizzarra. Da un lato – ritratti con l’ironia e la leggerezza che concede la distanza nel tempo – ci sono gli anni Settanta delle ideologie, dell’educazione alternativa, dei genitori hippy e delle coppie aperte e dall’altro il dramma della diaspora latinoamericana, delle dittature e delle storie degli esuli in cerca di rifugio a Città del Messico, con i loro vissuti drammatici.
La prospettiva attraverso cui si racconta è quella di una bambina con una macchia nella cornea, un neo bianco. È un’anomalia che la rende unica: con questo occhio guarda il mondo come un ciclope mentre l’altro, sigillato da una pezza terapeutica, la obbliga a uno sguardo che riconduce a sé. Da qui il peso dato al verso di Allen Ginsberg in epigrafe (I always wanted, / to return / to the body / where I was born), che ispira il titolo del libro, implicando il tornare al corpo in cui si è nati «con tutte le sue particolarità», come un corredo irrinunciabile.

C’è una sola persona con cui la protagonista dice di identificarsi: la vede scappare «dalla prigione della sua vita», si chiama Ximena, è figlia di esuli cileni, il cui padre era stato crivellato di pallottole dagli uomini di Pinochet. Quanto agli altri abitanti del pianeta, ne sceglie uno inconsueto – il trilobite – insetto antenato degli scarafaggi, sopravvissuto ai cambiamenti climatici, alle siccità e alle esplosioni nucleari. Ne ammira l’arte di dissimulare e la capacità di resistenza e dignità: «Che siano sopravvissuti non significa che non abbiano conosciuto la sofferenza, bensì che hanno saputo vincerla».

La scrittura di Nettel, di cui già la Nuova Frontiera aveva pubblicato altri titoli, sfugge alle classificazioni dei canoni incipriati, dei costrutti stucchevoli, dei temi alla moda: trasforma le sue storie necessarie in vicende universali, accessibili ai lettori casuali come ai più esigenti. Nel Corpo in cui sono nata non conosce insolenza, è onesta, piacevole, intima. Traspira una forma di impellenza: «Scrivi quello che ti sta succedendo adesso».

Distanze azzerate
Le età della bambina e della donna azzerano le distanze, la memoria riporta alla composizione infantile di qualche «poesia o elegia funebre per un uccello investito o pianta morta» allo scopo di ammettere, nel riverbero adulto, una «ossessione per il linguaggio, per la costruzione di una trama». È la stessa inequivocabile impronta che già si era impressa nell’editoriale che Nettel ha firmato per un numero della «Revista de la Universidad de México», di cui è attualmente direttrice, dedicato ai linguaggi, non solo quelli umani: «Enunciare, sia con parole che in altre maniere, equivale a creare il mondo. A dare forma alla realtà».