Il languore della campagna assolata, i riti delle vacanze, una villa elegante da qualche parte del nord Italia nell’estate del 1983, quando lo schermo della tv raccontava di un Beppe Grillo ancora comico nei varietà. Anche se quel mondo esterno nella casa dove la famiglia Perlman ama trascorrere lunghe vacanze risuona lontano. La vita lì scorre scandita dalla morbidezza delle abitudini, le corse in bicicletta, le letture, le scoperte del padre archeologo, le sigarette fumate con svagatezza dalla madre, e l’inquietudine di Elio (Timothée Chalamet), il figlio che esplora lo slancio dell’adolescenza, e la sua dolorosa incertezza, gli ammiccamenti delle amiche, i sussulti dell’erotismo, il corpo che preme, che cerca quasi brutale la sua affermazione. E all’improvviso arriva Oliver, (Armie Hammer) l’amico americano in visita in Europa, bello, sbadato, sempre al posto di qualcun altro. Elio lo detesta, gli ha dovuto cedere la sua stanza, ma la diffidenza pian piano scopre qualcosa altro, un’attrazione nuova, un corteggiamento dapprima timido di slanci e improvvisi passi indietro che sembra spaventare entrambi. Call Me By Your Name è il nuovo film di Luca Guadagnino, dal romanzo di André Aciman, scritto insieme a James Ivory e a Walter Fasano, magnificamente illuminato da Sayombhu Mukdeepromi, il direttore della fotografia di Apichatpong Weerasethakul e di Antonia di Ferdinando Cito Filomarino, che dopo il Sundance sarà alla Berlinale, nella sezione Panorama Special, unico titolo italiano del festival.

«Call Me By Your Name» era il solo film italiano al Sundance, e sarà l’unico anche alla Berlinale. Questo tuo essere proiettato in una dimensione internazionale che ti accoglie con entusiasmo – le critiche americane dal Sundance sono state tutte ottime – sembra essere una costante nel tuo ’kharma’ di regista, che trova – e lo dico senza lamentele, per carità – una maggiore attenzione fuori dall’Italia.

Al Sundance c’è stato un grande abbraccio di calore sia da parte del pubblico che dalla critica.Non ho una risposta a quello che mi chiedi. È vero, nel mondo rispetto al mio lavoro ho il piacere di ricevere delle reazioni aperte e disponibili. Forse è perché nonostante il passaggio dalla carta al digitale – che è un po’ come quello avvenuto nel cinema – esiste ancora una passione cinefila forte che si è tramandata e che nel mio modo di lavorare trova delle corrispondenze. I miei film cercano di partire sempre dalla forma anche in una narrazione classica, e questa attitudine è guardata con interesse.

Questo film, che è tratto dal romanzo amatissimo di André Acinam, «Chiamami col tuo nome» (in Italia Guanda, 2008), lo hai scritto insieme a Walter Fasano, che al montaggio condivide il tuo fare cinema sin dagli esordi, e a James Ivory …

Il nome di Ivory era già nel progetto dei produttori americani, gli stessi che poi lo hanno coprodotto con me. All’inizio ero stato coinvolto per una consulenza, il film doveva realizzarlo un regista quasi esordiente, e visto che le location erano in Italia mi avevano chiesto suggerimenti sull’organizzazione della produzione, i sopralluoghi ecc. Nel tempo il legame col progetto si è rafforzato, mi piaceva moltissimo. Poi è successo che il nome di quel regista non ha permesso di chiudere la produzione, così io e James abbiamo deciso di scrivere una nostra versione della sceneggiatura, senza impegno, quasi per gioco. Lo abbiamo fatto a più riprese, le volte che lui veniva a casa mia, a Crema. Quando l’hanno letta sono tutti impazziti, e a quel punto io avevo il desiderio quasi messianico di aiutare questo grande regista americano – che lo so, a molti non piace, ma di cui almeno qualche film si dovrebbe rivedere – a farlo. Purtroppo anche con lui non siamo riusciti a trovare una produzione, e io non avevo più voglia di raccontare storie di ricchi in case di lusso in Italia. Ma è stato come un lampo: mentre stavo preparando Suspiria mi sono detto; proviamo, proviamo a fare anche questo film con una troupe di giovani, girandolo con una lente sola (è in 35 millimetri), in pochissimi giorni. Mi piaceva l’idea di fare un film piccolo, girato quasi a casa, vicino a Crema, dove tornavo alla fine di ogni giornata di riprese. È nato così, da questo desiderio di leggerezza che in America ha toccato delle corde profonde.

Rispetto a «A Bigger Splash» di cui appunto ritroviamo in qualche modo la «struttura» – una casa grande e bellissima, relazioni che si instaurano tra le persone che la abitano riflettendosi nelle geometrie degli spazi, la noncuranza elegante della ricchezza – la narrazione si concentra più sui due protagonisti, il ragazzino Elio e Oliver, l’ospite, la figura che scompiglia ogni equilibrio.

Sono loro il focus del film, gli altri personaggi svolgono la funzione del coro. Sulle affinità con A Bigger Splash hai ragione, e forse anche con altri miei film, per questo all’inizio non volevo farlo. Ma conosco molto bene quei mondi caratterizzati dalla trasversalità delle cose, che non seguono una gerarchia, piuttosto una trasandata abitudine. E questo mi piace, mi permette di sperimentare delle intuizioni cinematograficamente molto interessanti. Elio, coi suoi diciassette anni, è un corpo bruciante che vuole solo rotolarsi nel reale. Prova tutto e lo fa con un’assoluta onestà e un totale abbandono. Oliver invece è il ragazzo goffo e desiderato da tutti. Non è semplicemente un Adone, è un uomo fuori posto ma nel posto giusto.

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C’è una sequenza in cui questa sensualità esplode magnificamente, la «scena della pesca», la chiamerò così, senza rivelare nulla, che è magistrale. Se devo trovare un paragone, per potenza nell’immaginario posso pensare solo alla «scena del burro» di «Ultimo tango a Parigi».

La giovinezza, l’adolescenza fanno vibrare il corpo di Elio, lui non riesce a bloccarlo. Quello che ci preoccupava sin dall’inizio, mentre scrivevamo, era evitare la dinamica dell’adulto che perde la testa per il più giovane. Questo incontro, e la sua passione, sbilanciano entrambi i personaggi, Elio e Oliver, allo stesso modo nell’istante in cui si vi si abbandonano. Il film, per me, è anche un piccolo documentario sui due attori protagonisti, sonda i loro movimenti interiori, li osserva aprirsi alla macchina da presa.

Seppur più sul «bordo» della narrazione, presenza discreta e dall’apparenza distratta, la terza traiettoria conduce al padre archeologo del ragazzo, (Michael Stuhlbalrg), che lo sostiene nelle sue scoperte.

Mi piaceva pensare, riguardo al padre, alla figura di un uomo irrequieto in giovinezza che ha trovato una stabilità rinchiudendosi nelle studio e nel legame saldo con la moglie (Amira Casar). «Io non ho avuto il tuo coraggio» dice al figlio, e questo comunica un legame affettivo profondo, disseminato un po’ in tutto il film, nei piccoli gesti di ogni giorno, come leggere insieme un libro, che esprimono il dialogo parentale. Questo padre è un po’ anche una mamma, crea uno slittamento di ruoli codificati.

https://youtu.be/yzIIPmnnDkI

Quanto conta per te la sceneggiatura?

È una struttura che deve seguire linee molto precise ma quando arrivi sul set viene quasi dimenticata nell’energia della vita che scorre. Però solo se è molto solida ti permette questa imprevedibilità. Il terzo passaggio in cui si ricomincia è il montaggio, per me è lì che si fa il film. Per questo non posso pensarmi senza Walter Fasano con cui anche nella diversità di opinioni c’è un accordo assoluto. Siamo quasi come due mariti.

E il romanzo, che è un racconto di formazione con tutti i rischi che ciò comporta, è stata una presenza ingombrante?

È stato una guida, c’erano molte cose che ci piacevano, ma abbiamo cambiato anche moltissimo. Ci siamo fatti ispirare dall’atmosfera dell’estate, che è sempre ripetitiva: non sembra esserci un movimento finché all’improvviso non ci ti accorgi che è finita.