Gregorio De Falco: «Chiudere i porti significa tornare allo stato di natura»
L'intervista Il senatore e ufficiale di marina spiega pericoli e possibili effetti collaterali del decreto interministeriale. «Se un simile principio potesse realmente essere affermato, non esisterebbe un posto dove mettere piede a terra per nessuno»
L'intervista Il senatore e ufficiale di marina spiega pericoli e possibili effetti collaterali del decreto interministeriale. «Se un simile principio potesse realmente essere affermato, non esisterebbe un posto dove mettere piede a terra per nessuno»
Il senatore Gregorio De Falco è un ufficiale di Marina diventato celebre per l’ordine impartito al comandante Francesco Schettino di «tornare a bordo» della Costa Concordia, ha portato in parlamento la sua sensibilità per le persone costrette a sfidare il mare in condizioni avverse. Ha votato contro i cosiddetti «decreti sicurezza» voluti da Salvini ed è stato in seguito espulso dal Movimento 5 stelle. Al momento fa parte del Gruppo misto.
Perché il decreto che dichiara l’Italia «porto non sicuro» non è stato ancora pubblicato in Gazzetta ufficiale?
In alcuni casi i decreti ministeriali non hanno bisogno di essere pubblicati, ma questo, avendo natura normativa ed essendo rivolto a tutte le navi battenti bandiera straniera è necessario che possa essere conosciuto affinché sia poi osservato. Il fatto che non sia ancora stato pubblicato potrebbe deporre nel senso dell’auspicabile ripensamento da parte dei ministri firmatari. In alternativa potrebbe darsi che ritenga l’atto essenzialmente amministrativo e quindi non suscettibile di pubblicazione. Ma in questo modo, non sarebbe possibile per il comandante di una nave straniera conoscere quelle disposizioni. Differentemente, un provvedimento di interdizione viene notificato al destinatario, a bordo perché è rivolto ad una specifica nave. Inoltre, il provvedimento si basa sulla Convenzione delle nazioni unite sul diritto del mare, poiché la facoltà di sospendere il diritto di passaggio inoffensivo previsto all’articolo 18 della Convenzione di Montego Bay, afferma che le navi straniere hanno diritto di transitare e sostare nelle acque territoriali di uno Stato a meno che esse non rappresentino una minaccia o pregiudichino la sicurezza o il buon ordine del Paese costiero, a mente dell’articolo 19 della Convenzione, menzionato dal decreto. Ma la convenzione è richiamata dal decreto in modo inafferente, poiché si afferma che la situazione ipotizzata è opposta, poiché è la comunità costiera che rappresenterebbe un pericolo per la nave, a causa della pandemia. Quindi si è realizzata una vera e propria torsione della norma la cui menzione risulta del tutto inappropriata e resta da capire in forza di cosa si intenda derogare al principio di libertà di passaggio inoffensivo e agli obblighi connessi al soccorso marittimo e discendenti dalla convenzione Sar, firmata ad Amburgo nel 1979.
La dichiarazione di «porto non sicuro» può avere effetti collaterali?
L’Italia sta affermando che le sue strutture costiere sono unsafe e pericolose, ma tale affermazione logicamente non può che estendersi a tutte le navi straniere, non avendo alcun rilievo specifico il fatto che alcune abbiano operato dei soccorsi in mare. Che dire infatti delle navi honduregne o spagnole? La chiusura dei porti italiani, trovando motivo negli stessi, vale in astratto, per ogni nave battente bandiera straniera, ivi comprese quelle dei paesi comunitari.
Anche Malta ha dichiarato i suoi porti non sicuri a causa del Covid-19. Si è prodotto un effetto a catena?
Non si può escludere che vi sia stata una reazione emulativa, poiché con le stesse ragioni, allorquando l’Italia afferma che a causa della pandemia i propri porti non sono sicuri, allo stesso modo potrebbero dirlo anche Malta, la Libia e tutti gli altri paesi mediterranei. È questa conseguenza a evidenziare l’assurdità: se un simile principio potesse realmente essere affermato, non esisterebbe un posto dove mettere piede a terra per nessuno. In questo modo le persone sarebbero messe al sicuro rispetto a un pericolo, quello sanitario, certamente ipotetico, lasciandole al contempo in una situazione di pericolo concreto di perdersi in mare senza meta. È bene ribadire infine che, in presenza dei presupposti ricordati, è possibile interdire la navigazione in un braccio di mare territoriale, ma non si possono chiudere i porti, poiché sono luoghi e strutture in cui le navi devono sempre poter trovare rifugio, qualunque sia la loro bandiera e in qualsiasi circostanza. Se la nave rappresenta un pericolo per la comunità costiera, allora, come si fa da centinaia di anni, devono essere messe in quarantena. Con questi comportamenti e queste norme è come se avessimo deciso di abolire un paio di millenni di civiltà, fino a tornare allo stato di natura.
La Alan Kurdi si sta dirigendo verso le coste siciliane. Cosa può accadere?
La comandante ha la consapevolezza della capacità della propria nave. Sa quanta acqua e quanto cibo ci sono a bordo, quanto carburante rimane. Quando ritenga che la sicurezza della propria nave sia a rischio deve dichiarare lo stato di necessità ed entrare in porto.
E le autorità cosa devono fare?
Devono farla entrare. Lo stato di necessità è una scriminante generale. Se la comandante, sotto la sua responsabilità, valuta che non ci sono le condizioni di sicurezza entra in porto e basta. Poi sarà il giudice a valutare se in concreto ci fosse un’emergenza effettiva.
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