«Facciamo brani di David Bowie da qualcosa come sette anni: li abbiamo anche incisi, con la partecipazione di Vernon Reid. In pratica abbiamo tutto un album di sue canzoni ma è ancora nel cassetto, per problemi di costo dei diritti: anche se ormai i suoi pezzi li vorrei ri-registrare, perché è un repertorio con cui adesso abbiamo un altro livello di familiarità…». Greg Tate è un intellettuale afroamericano di rilievo, che già dagli anni ottanta ha firmato interventi e saggi che sono diventati di riferimento. Ma Tate è anche chitarrista e bandleader: nell’85 è stato tra i fondatori della Black Rock Coalition, e nel ’99 ha dato vita a Burnt Sugar, una ampia formazione che si ispira ad una galassia di esperienze musicali come il Miles Davis elettrico, la Band of Gypsies di Hendrix, i Funkadelic, Sun Ra. Oltre a produrre musica originale, la Burnt Sugar ha reso omaggi a figure come Max Roach/Abbey Lincoln e Prince, ma con la propria sensibilità oltre a Bowie ha riletto anche altri repertori e pagine non afroamericani, spaziando dagli Steely Dan a Stravinski. A cavallo fra agosto e settembre la Burnt Sugar è tornata a Ai confini tra Sardegna e Jazz per due serate: una imperniata su Bowie, l’altra dedicata, su commissione del festival, ad una rivisitazione di Porgy and Bess.

L’opera di Gershwin ha suscitato molte controversie: sull’uso di materiale folk nero, su certi stereotipi…

Ci sarà sempre qualcosa di controverso quando compositori o scrittori bianchi tentano di raccontare la storia dei neri del Sud in quell’epoca. Oggi c’è chi trova offensivo che lo stile del lavoro sia ispirato al genere del minstrel, ma è un ibrido interessante, che ha una forza, con il folclore nero dentro un’opera. Comunque per molti di noi musicisti e artisti delle ultime generazioni Porgy and Bess è innanzitutto la versione che ne hanno dato Miles Davis e Gil Evans con il loro album, cioè un distillato puramente musicale. Ma nel libretto ci sono elementi che mi ricordano molto il rap di oggi, in particolare del Sud. In ogni caso con questo progetto lo spirito e la lettera del libretto vengono trasformati, con una visione più contemporanea del black song, e riprendiamo ritmiche hip hop, ma anche il Miles degli anni settanta, che in un certo senso è stato come un proto-hip hop. E poi c’è anche l’aspetto dell’improvvisazione. Quindi tutto tranne che una resa convenzionale.

Greg Tate

Dopo oltre trent’anni, che bilancio si può fare della Black Rock Coalition?

Quando abbiamo iniziato volevamo fare rumore a sostegno dei musicisti rock neri: eravamo veramente all’apice del rock bianco, era un po’ come avere di fronte una «white rock coalition». Molti musicisti neri erano venuti fuori ascoltando british rock, punk, Hendrix, Sly Stone, Isley Brothers. E negli anni settanta c’era stata una fase di rock nero, con gente come Funkadelic, War, Chaka Khan, un periodo di grande sperimentazione, nel r’n’b e nella musica nera in generale, e molto in rapporto con quello che stava succedendo nel jazz post-coltrane, Sun Ra, l’Art Ensemble: tipi come Sly Stone, Maurice White degli Earth Wind & Fire, George Clinton la sapevano lunga su quello che succedeva nell’avanguardia e nel jazz, e all’epoca anche James Brown aveva elementi di jazz d’avanguardia nella sua band. Un periodo di grande effervescenza creativa, in cui nessuno si spaventava per un assolo di chitarra distorta a volume forte in un brano r’n’b. Ma non c’era supporto per sviluppi commerciali da parte della cultura r’n’b e della cultura rock di Mtv: così abbiamo fatto da soli, e i Living Colour sono diventati la nostra nave ammiraglia nei media del rock bianco dell’epoca, e sono nate un sacco di band nere, sono venuti fuori i Bad Brains e i Fishbone. Poi questo momento è passato, con la disco, l’hip hop, la techno, e il r’n’b che ha continuato ad evolvere, alla sua maniera. Non abbiamo ottenuto chissà quali risultati dal punto di vista economico e commerciale, ma abbiamo creato uno spazio per noi stessi, un’audience e molte relazioni, amicizie, collaborazioni, e abbiamo mostrato la varietà della musica nera contemporanea. È sempre forte quando puoi sostenere un’idea collettiva radicale e di opposizione.

Nel 2003 lei ha pubblicato un libro su Jimi Hendrix e l’esperienza nera.

Quando Hendrix è emerso c’era una grande pressione sui musicisti neri perché si conformassero a certe forme di musica, come Motown, southern soul, jazz, se volevano avere una carriera. Molti artisti neri avrebbero voluto essere audaci, sperimentali, alla maniera di come lo erano i Beatles o i Rolling Stones, ma erano molto cauti. Per fortuna Hendrix non è stato angosciato dalla paura di fallire. È stato un’ispirazione per così tanti di noi, dal punto di vista sonoro, dello stile, dell’atteggiamento. Con il suo aspetto appariva un uomo nero libero: mentre i Black Panthers si vestivano come in uniforme, combattenti della libertà che non erano essi stessi liberi. Hendrix è stato un vero leader, un vero pioniere: un caso di uomo nero che ha lasciato sbigottiti per qualcosa che non era previsto che un nero potesse essere, e in quel campo è stato il re, quello che detta le regole.

Anche ultimamente negli Usa avete ripreso il vostro omaggio a Prince.

Ci siamo focalizzati su Parade, la colonna sonora di Under the Cherry Moon, collaborazione di Prince con un orchestratore, Clare Fisher: quindi un lavoro molto speciale, con composizioni veramente incredibili. Anche perché quando Prince è morto, ci sono stati un sacco di tributi imperniati su Purple Rain, una canzone assurta a classico per la comunità rock bianca: ma per l’audience nera, e in generale per i veri fan di Prince, ci sono dozzine di brani che sono dei classici. Quindi è stata l’occasione di fare degli arrangiamenti che non suonassero come quelli di una delle tante band che omaggiavano Prince.

In un articolo che una trentina d’anni fa ha fatto epoca, lei ha scritto che Jean-Michel Basquiat è stato, come Hendrix, il nero giusto nel posto giusto al momento giusto.

Un genio, un visionario autodidatta, che ha messo nell’arte figurativa la qualità più energetica e innovativa della musica hip hop: pensiamo fra l’altro all’influenza del campionamento sulla sua arte, al suo uso di fotocopie Xerox per i suoi lavori. Nella maniera con cui usa i colori, c’è una magia, una vivacità che è molto musicale: ascoltava tanta musica di tipi molto diversi, amava il be bop di Charlie Parker, Miles Davis, Monk, che hanno diffuso una astrazione nera, che hanno trasformato la nozione dell’estetica nera nell’arte. E appunto era il momento giusto: una fase post-graffiti, post-punk e in cui emerge l’hip hop, e lui negli ottanta era parte di tutto questo, quando ancora non si vedeva la forza inarrestabile che l’hip hop avrebbe raggiunto. Ma la porta era aperta, e negli anni in cui Basquiat muore le major firmano con gruppi hip hop dei più arditi, come Public Enemy.

Nello stesso articolo lei diceva che nella cultura l’arte era il bastione più forte della supremazia bianca: pensa che in questi trent’anni qualcosa in questo campo sia veramente cambiato?

Molte cose sono cambiate. Per via di Basquiat, e di altra gente che è arrivata negli anni ottanta e novanta, David Hammons, Kara Walker, Lorna Simpson: si è rotta la regola che ci potesse essere solo un artista nero che arrivava al successo, e adesso c’è una pletora di giovani artisti neri nelle gallerie. È ancora un mondo molto bianco e molto esclusivo, ma la presenza di artisti neri e di altre persone non bianche non è l’eccezione puramente simbolica. Il mondo dell’arte si è allargato e si è decentralizzato, e New York non è più il luogo più importante, ci sono biennali in tutto il mondo, e c’è molto sostegno per artisti che non sono bianchi, anche in relazione ad economie emergenti in Asia e Africa. Probabilmente a New York ci sono state più mostre di artisti cinesi negli ultimi cinque anni che nei cinquanta precedenti.

Ha in preparazione un nuovo libro…

È un volume su una serie di figure cruciali della cultura nera: alcune hanno avuto importanza soprattutto per la comunità nera, altre, come Muhammad Ali, Toni Morrison, Miles Davis. Con le loro prese di posizione, la loro musica, la loro arte, hanno reso tutto il mondo consapevole della straordinaria presenza della creatività nera nel ventesimo secolo, in una maniera che ha cambiato la nozione di cos’è la cultura universale.