Dieci ribelli in più. Nel voto di fiducia per il secondo decreto Green pass, martedì alla Camera, erano stati 41 su 132 i deputati leghisti «assenti ingiustificati». Nel voto di ieri sono arrivati a 51: vicini alla metà del gruppo.

È un segnale, questo è chiaro, ma rivolto a Salvini o di Salvini? Un po’ tutte e due le cose, ma più la seconda che la prima. Perché il capo, per quanto ammaccato, non ci sta a consegnare la scelta della rotta al pur potente partito del nord, limitandosi a fare da autista. Intende restare in bilico, fedelissimo a Mario Draghi nelle dichiarazioni roboanti, alla fine, per la verità, puntualmente allineato anche nelle scelte concrete. Però senza rinunciare alle strizzate d’occhio rivolte al popolo non foltissimo ma neppure esiguo dei No vax e soprattutto dei molto meno farneticanti No Green pass.

SALVINI COPRE E DIFENDE i riottosi del non voto. Li giustifica con il tono partecipe di chi in realtà, anche se non può dirlo apertamente, li comprende: «I parlamentari sono liberi di esserci o non esserci. Ognuno è libero di agire secondo coscienza».

Poi un colpo sotto la cintura, e bello duro, al presidente del Friuli Venezia Giulia, tra i principali esponenti dell’ala «governista». Martedì Massimiliano Fedriga era andato giù brusco: «Nella Lega non c’è posto per i No Vax». Matteo Salvini è anche più ruvido nella implicita replica: «Siamo in democrazia, non in un regime».

Parole dure, pesate anche e forse soprattutto per incidere sul voto del 3 ottobre nel quale Salvini sa di giocarsi moltissimo. Non la leadership della Lega: quella checché se ne vociferi, è fuori discussione.

Il Carroccio non è più il trionfante partito che nel 2019, alle elezioni europee, aveva sfondato il muro del 34%. Ma non è neppure il partito agonizzante e già dato per defunto che affondava sotto il 4%. Tutti, in entrambe la fazioni della Lega, sanno che senza il ringhioso frontman ci vorrebbe poco a precipitare di nuovo. Ma per quanto riguarda la leadership del centrodestra le cose stanno diversamente e per Giorgia Meloni e Salvini l’importante nella partita delle amministrative ottobre è solo quello.

PER RECUPERARE il danno d’immagine subìto con la defezione dell’eurodeputata Francesca Donato, Salvini gioca la carta delle new entries. Due nomi pesanti: il presidente del consiglio regionale lombardo Alessandro Fermi e il presidente della commissione Autonomie Alessandro Piazza. «Per uno che va dieci entrano», esulta «il Capitano». Peccato che gli entranti avessero in tasca fino a un attimo prima la tessera azzurra e a Forza Italia lo sgarbo non piace affatto.

Nella competizione con sorella Giorgia l’asse con Fi è sempre stato una carta importante nella manica di Salvini. Ma nell’ormai sgangherata sfida per la guida della destra, che passa per non perdere Milano al primo turno e per confermarsi primo partito sia nel Paese che nella coalizione, ogni accortezza viene messa da parte.

Salvini sgambetta i potenziali alleati, poi li provoca con una proposta assurda, quella di un gruppo unico all’europarlamento composto dal Ppe e dai gruppi populisti. Ideuzza irricevibile per gli azzurri: «Nessuna alleanza con Id e marine Le Pen», lo rimbecca Antonio Tajani. Così la destra diventa teatro di una guerra di tutti contro tutti.

DRAGHI SI DISINTERESSA della rissa. I partiti possono anche dilaniarsi: «Il governo va avanti». Domani il consiglio dei ministri stanzierà 900 milioni per rifinanziare l’indennità di quarantena, il sostegno per chi dovrà restare a casa perché entrato in contatto con un positivo.

Dal terzo dl Green pass è stata invece cancellata, per le aziende con più di 15 dipendenti, la sospensione. Lo stipendio non verrà erogato, però il lavoratore «assente ingiustificato» non potrà essere sostituito e potrà quindi tornare al lavoro appena in possesso del certificato, senza aspettare la fine della sostituzione.

È un passo in direzione delle richieste dei sindacati, ma un bel po’ depotenziato da un particolare: le aziende sotto i 15 dipendenti sono la stragrandissima maggioranza, 98% o giù di lì.