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Green economy e riconversione industriale, una coppia perfetta

Green economy e riconversione industriale, una coppia perfetta

Economia Per cambiare modello di sviluppo, bisogna cambiare il motore della macchina produttiva. Gli snodi strategici e le migliori politiche di bilancio pubblico

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 8 novembre 2019

Tra vincoli economici, finanziari, green new deal, tasse di scopo e merendine, il bilancio dello Stato per il 2020 non riesce e non potrebbe delineare misure ambientali e di struttura coerenti per modificare il motore della macchina senza fermarla.

Tra vincoli economici, finanziari, green new deal, tasse di scopo e merendine, il bilancio dello Stato per il 2020 non riesce e non potrebbe delineare delle misure ambientali e di struttura coerenti per modificare il motore della macchina senza fermarla. Il green new deal rimane una prospettiva, purtroppo senza appropriate analisi e prospettive di struttura il che inficia il progetto complessivo.

In effetti, senza modificare il motore della macchina della produzione, responsabile dell’85% delle emissioni di CO2, contro il 15% dei consumi, sarebbe impossibile agganciare gli obbiettivi di Parigi. Il centro studi non profit EStà, in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente, ha predisposto 4 working paper (capitale, finanza, struttura e matrice) tesi a delineare le policy che meglio di altre possono implementare il progetto ambizioso di un green new deal. A Milano (29 novembre dalle 14 alle 18.30 presso l’Università Bicocca – Sala Rodolfi -, per iscrizioni: barbara.terrone@assesta.it ) discuteremo proprio dei vincoli di struttura con il mondo accademico e le parti sociali.

Potrebbe essere una occasione per sviluppare un approccio metodologico e innovativo per delineare le migliori politiche di bilancio pubblico tese a sostenere il nuovo paradigma tecno-economico green. Gli snodi strategici sono sostanzialmente di tre ordini.

1) L’impatto degli effetti climalteranti sul Pil è per lo più misurato in termini di costi, trascurando il capitale; in realtà i costi di qualcuno sono anche un reddito per altri: la messa in sicurezza di un’area, il risanamento di un territorio, il disinquinamento delle falde acquifere e/o la ricerca di falde più profonde, sono effetti del cambiamento climatico che potrebbero diventare reddito in presenza di una politica economica all’altezza. La disputa sui costi fa ombra a qualcosa di più profondo, ossia la quantità di capitale nazionale che rischia seriamente di essere compromesso perché distrutto o reso inutilizzabile dagli effetti climalteranti. Più precisamente, considerate le previsioni sulle inondazioni, ci sono ampie porzioni di territorio che rischiano di essere private di capitale tout court e di valore aggiunto.

2) La finanza non può essere trascurata. Con quali lenti la politica monetaria guarda al cambiamento climatico? Nei più importanti documenti istituzionali, compresi quelli della Banca d’Italia, il tema è connesso ai parametri ESG (criteri ambientali, sociali e di governo), che permetterebbero la predisposizione di bond collegati agli obiettivi climatici. Purtroppo, le dinamiche finanziarie, anche quando inserite nella cornice dei parametri ESG, con difficoltà considerano alcuni rischi rilevanti; per esempio il rischio di erogare più credito-capitale nelle zone a minor vulnerabilità climatica – dove ci sarebbe meno necessità di credito-capitale da investire – rispetto ad aree ad alta vulnerabilità; o ancora il rischio speculativo, cioè la creazione di bolle in un nuovo macro settore ritenuto ad alto potenziale di redditività.

3) Sarebbe il caso di indagare la relazione tra andamento di CO2, Pil e struttura produttiva. Nonostante vi sia accordo pressoché unanime sull’obiettivo di ridurre la CO2 per contenere gli effetti climalteranti, questo orizzonte è stato storicamente interpretato da taluni come un vincolo alla crescita e/o come vincolo all’uso delle risorse naturali. Da diverse parti, inoltre, si è manifestata l’intenzione di introdurre tasse di scopo per implementare il principio di chi “inquina paga”.
Sarebbe molto più opportuna la rilevazione di una base imponibile coerente slegata dal consumo, introducendo un criterio di progressività connessa alla CO2.

La sfida più importante si colloca nella relazione tra emissione di CO2 e struttura produttiva (modello di sviluppo). Osservando alcuni indicatori di sistema dei principali paesi europei (brevetti, R&S, investimenti verdi, Pil), si osserva che non tutti i paesi registrano gli stessi andamenti. Le differenze sono legate alla struttura produttiva: tanto più questa è orientata alla green economy, tanto più mostra maggiori tassi di crescita e viceversa. La green economy poggia sull’industrializzazione della ricerca e la politica pubblica; la distanza tra i paesi fotografa il loro posizionamento tecno-economico e la relativa possibilità di diventare protagonisti del cambiamento.

Ad un primo livello di indagine, emerge come il settore della manifattura industriale, rispetto ad altri maggiormente considerati dalla narrazione mainstream (trasporti, agricoltura) sia quello che meglio di altri reagisce in termini di de-carbonizzazione rispetto agli stimoli coordinati di ricerca e sviluppo e brevettazione, oltre ad essere il settore strategico della green economy in quanto cede i beni utilizzati dai settori, agricolo, dei trasporti, della climatizzazione etc. La riflessione che proponiamo è quella di indagare la CO2 come processo dinamico e non come fenomeno comportamentale.

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