Grease (Brillantina) diretto da Randal Kleiser, con John Travolta, Olivia Newton-John. Frankie Avalon e Joan Blondel, Usa. 1978.

All’assalto di «Brillantina» migliaia di teen-agers, in prevalenza donne. Il cinema Reale, a Trastevere, Roma, esaurito alle 16. Segno che quel fantastico oggetto di desiderio chiamato John Travolta ha colpito bene e ancora.

Il lancio Paramount era una garanzia e il doppio album «Grease» (al prezzo esorbitante di tutta la disco-musica) si era già subdolamente diffuso attraverso radio di tutti i tipi. Quando è comparsa la grande vetta che effigia la ex major, l’urlo del pubblico è stato straordinario. Simpatia per una multinazionale controllata interamente dai banchieri sionisti? Oppure omaggio sincero alla grande casa di produzione che negli anni ’60 lanciò Jerry Lewis? Più semplicemente impazienza.

Un prologo pre-cast tutto applausi e Scandalo al sole. Si consuma presto il «senso» dell’operazione. Il divo sexy bacia la «spalla» in riva al mare, il sole rosso rosso approva nel tramonto. Può venire il mal di pancia o si può rimanere estasiati. Si può vivere tutto il film come un incubo per pazzi, o come un dolce sublime sogno. Tutto sta ad essere: o giovanissimi, o cinofili, o amanti della Coca Cola, dei jeans e dei giubbotti di pelle o uno spettatore italiano tradizionale, che non ha mai capito e mai sopporterà una commedia musicale qualunque, a meno che non abbia qualche contenutino sociale alla West side story. Come la disco- music (che lentamente si fa avanti anche in questo Grease che si svolge proprio negli anni ’50, è un film in costume sulla piccola borghesia che finge di fare Cheli-angel al riparo di un college matriarcale) è un frappé «di tutto quello che i bianchi (Oresley, Lee Lewis, Little Richard) sono stati così bravi a rubare al filone popolare e autentico della musica e del canto afroamericano» da molti decenni, così il film saccheggia con vero gusto e aria scanzonata tutto quello che è stato il cinema «per giovani» degli anni ’50.

Un genere molto importante con ramificazioni, capolavori, e film b, che si buttò a capofitto nelle piaghe dei ribelli e delle loro donne, ammorbidendo la radicalità del loro atteggiamento nell’analisi delle carenze familiari, sociali. Tutto era riformabile nei film di Dean, Brando, Sandra Dee, nei melò di Delmer Daves, nelle scuole della violenza di Richard Brooks e Glenn Ford. Dove le cose non sembravano cosi semplici si aveva a che fare con troupe scalcinate, cineasti indipendenti, film votati al dimenticatoio.

Tutti i desideri, le pulsioni erotiche, la giovanilità cameratesca, la gioia del ballo, della festa, del metro-drive in (che intanto sta scomparendo nelle fauci rapaci dei proprietari di immobili), del localino simpatico, della giostra, dello sport nel film di Travolta ci sono, esasperate, iperrealisticamente presentate (più vere, più belle, più colorate di quanto non siano nella realtà).

Tutto il resto manca, non ci sono genitori, psichiatri, professori, gendarmi, sia consci che inconsci. Se è vero che a fantastici numeri di musica e massa, si alternano noiosi canti di intimo dolore (e questo è il ritmo del film) è anche vero un sex simbolo come Travolta (già quattro film in due anni) va calibrato con accortezza, deve stare calmo per un po’, faccine ebeti, mossette stupide, per essere poi uno schianto quando balla canta e si trasfigura.
Era il vecchio trucco dei grandi musical degli anni ’30 (cioè della faccia cinematografica del new deal di Roosevelt) arrivare al duetto Astaire-Rogers all’acme. Forse Jerry Lewis le ha già scritte in immagini queste cose, quanto amore dispone e quanto odio riceve il piccolo americano nel suo paese. Solo che il suo punto di vista è sempre stato maledettamente quello dell’uomo a cui John Travolta porterebbe via ogni ragazza.