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Grazia per Nicoletta Dosio, non un atto di clemenza

Grazia per Nicoletta Dosio, non un atto di clemenzaNicoletta Dosio

La proposta di una campagna per la concessione della grazia a Nicoletta Dosio, la precisazione dell’interessata di essere contraria a ogni soluzione individuale, le prese di distanza di diversi comitati […]

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 7 gennaio 2020

La proposta di una campagna per la concessione della grazia a Nicoletta Dosio, la precisazione dell’interessata di essere contraria a ogni soluzione individuale, le prese di distanza di diversi comitati e siti No Tav hanno aperto un confronto sul che fare di fronte alla stretta repressiva in atto contro le lotte sociali. È un confronto importante, anzi necessario, per evitare che, come spesso accade, una volta spenti i riflettori si spengano anche, fuori dalla comunità della Val Susa, l’attenzione e la tensione.

Essendo tra coloro che hanno lanciato, proprio su queste pagine, la proposta della grazia mi compete approfondirne le ragioni, anche perché il confronto degli argomenti può contribuire ad aprire nuove strade (che pure oggi non vedo).
C’è un punto fermo. La concessione della grazia come misura di «clemenza» di carattere individuale sarebbe in evidente contrasto con la scelta di Nicoletta di rinunciare a chiedere misure alternative al carcere. Quella rinuncia è stata un atto di coerenza etica ma anche – vorrei dire soprattutto – un gesto politico per denunciare e contestare l’escalation repressiva (ben oltre i vincoli legislativi) nei confronti della stessa Nicoletta e di tutto il movimento No Tav. Ciò è ben chiaro a tutti coloro che hanno parlato di grazia, i quali hanno esplicitamente sostenuto che deve trattarsi «non di un atto di clemenza individuale ma di un segnale di cambiamento generalizzato di una politica e di un intervento giudiziario che mostrano sempre più il loro fallimento». Di questo – non d’altro – occorre, dunque, parlare. Può, la grazia, essere un gesto politico, un elemento di discontinuità, un segnale di cambiamento?

La risposta non può fermarsi al dato emotivo legato al termine «grazia», che fa pensare a un provvedimento individuale e in qualche misura «compassionevole». Da tempo non è così e la grazia ha acquisito, in positivo e in negativo, un carattere squisitamente politico e una valenza generale. Ovunque. Mandela è uscito dal carcere grazie a un provvedimento di liberazione individuale che ha, peraltro, decretato la fine dell’apartheid e il crollo del regime bianco del Sudafrica. E a nessuno sfugge il significato che avrebbe sull’evoluzione della questione curda la liberazione di Abdullah Öcalan (non a caso mai presa in considerazione dal regime di Erdogan, neppur dopo 20 anni di prigionia in condizioni di totale isolamento). Sul piano nazionale, poi, c’è un caso clamoroso: le grazie – più di una – concesse agli agenti della Cia responsabili del sequestro di Abu Omar a Milano non hanno avuto nulla di «personale» ma sono state solo l’esplicito mortificante riconoscimento della subalternità italiana ai desiderata e al potere degli Stati Uniti. Le situazioni sono evidentemente diverse: non vanno assimilate ma valgono a dimostrare l’accentuata valenza generale dell’istituto. In questo contesto, un provvedimento di liberazione di Nicoletta (deciso di ufficio dal presidente della Repubblica) avrebbe all’evidenza una ricaduta politica, in controtendenza rispetto alle scelte repressive della magistratura, che ne uscirebbero a dir poco incrinate, e, più in generale, all’atteggiamento istituzionale di chiusura di fronte alla lotta contro il Tav.

Ci sono delle obiezioni. Due su tutte. La prima è che sarebbe ben più chiara e leggibile un’amnistia politica o sociale. È certamente vero. Personalmente ne sostengo da anni la necessità «per tutti i reati bagatellari (per i quali la sanzione penale è in ogni caso inadeguata e sproporzionata) e, a prescindere dalla pena, per quei delitti che stigmatizzano le persone (ovviamente quelle sgradevoli o sgradite) più che i fatti e di cui si trovano molteplici esempi nella legge sugli stupefacenti, in quella sull’immigrazione e nella parte del codice penale dedicata all’ordine pubblico» (così, su queste pagine, il 29 agosto 2013, Un’amnistia che guardi al futuro). Di più, penso che anche il solo parlarne «significhi aprire, finalmente, un dibattito sul diritto penale che vogliamo, sulle regole della nostra convivenza, sulle modalità di gestione del conflitto sociale». Ma l’amnistia richiede il voto favorevole dei due terzi del Parlamento e ciò la rende all’evidenza impraticabile nell’attuale contesto politico. Nessun atteggiamento rinunciatario, ovviamente, ma la percezione che occorre costruire le condizioni per la sua praticabilità modificando equilibri politici e incidendo sugli orientamenti repressivi dell’opinione pubblica. Proprio la grazia, demandata al presidente della Repubblica, potrebbe essere un primo passo in questo senso.

La seconda obiezione è che le possibilità di concessione della grazia sono, per usare un eufemismo, assai limitate. Vero anche questo. Ma una mobilitazione per un risultato possibile, anche se difficile, avrebbe una molteplicità di effetti positivi: costringerebbe la politica, la cultura, il mondo del lavoro a schierarsi, metterebbe in atto nuove alleanze, ridarebbe centralità alla questione del Tav (oggi accantonata in base alla, pur falsa, affermazione che ormai tutto è deciso e non c’è più nulla da fare). Non sarebbe, in ogni caso, poca cosa.

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