«Con le labbra ripeto misura, ma in verità non do questo nome a una dimensione, bensì a uno stato interno che mi chiama, che mi vuole far sua. Chiazza tiepida, mandorla di silenzio e d’ombra, confine struggente». Dal fondo di un esilio e del tremore prodotto dai suoi primi quarant’anni, Grazia Livi racconta come abbia radunato a sé le proprie forze per abbandonare definitivamente la scrittura giornalistica e occuparsi solo di quella letteraria.

Pubblicato per la prima volta nel 1980, L’approdo invisibile (pp. 318, euro 16) ora viene ridato alle stampe da L’Iguana editrice che, nel suo progetto politico-letterario, individua nella letterata fiorentina, scomparsa nel 2015, una fulgida occasione che va a comporre la tessitura con cui le scrittrici hanno cesellato la genealogia, non solo italiana.
Grazia Livi in questo che potremmo definire un eccentrico esercizio fra il romanzo, il racconto e il diario, si accosta alla decisione di fare della propria parola un’esperienza letteraria. Quello che si trova raccontato in L’approdo invisibile è un passaggio importante nella vita di Livi che nel 1980 fa ritorno alla scrittura letteraria dopo diversi anni di lavoro come giornalista nelle pagine culturali di Epoca, L’Europeo e altre testate.

Precisamente dal 1957 al 1970, anno in cui decide di abbandonare il lavoro per giornali e riviste e concentrarsi nel tempo lungo della scrittura.
Senza frenesie, distillando momenti d’essere in una svolta, nella meditazione di un rovesciamento, le strade di Londra, dove era già stata, ricongiungono al centro di sé, rammendando di imprevisto il già noto. Se colloquiare con una città significa perimetrarne le intenzioni – insieme alle proprie – in una peregrinazione audace di riconnotazione, in cui avere fiducia nell’incontro con l’altro, è nella vita di Livi che gli incontri sono stati tanti. Da Le Corbusier a Rubinstein, o anche Anna Banti – decisiva nella sua presa di coscienza letteraria. Tra quelli immaginari certamente c’è Virginia Woolf, Jane Austen, Charlotte Brontë, Carla Lonzi e poi ancora Rilke, Shelley e altri.

«La scrittura letteraria ricrea l’intimità dell’esperienza, proprio quello che lo stile giornalistico aveva ucciso». Così chiosa Paola Azzolini nella ottima e fine postfazione che sistema la figura dell’autrice all’interno di un percorso che è stato prima di tutto simbolico. Fare dunque ritorno a Londra, avendo dinanzi la svolta che l’aspetta, consente la consapevolezza di un acquistato disincanto, di un ineluttabile e perenne «dispatrio». Poiché «scrivere – prosegue Azzolini – è fare e rifare all’infinito. Il viaggio è dall’approssimazione all’esattezza massima».

Allora qual è quella misura cercata e desiderata e tanto difficile da trovare? Non sembra certo riguardare l’equilibrio, bensì una sottrazione da una realtà che è «troppa», «avrei desiderato una porzione esigua da comporre ragionevolmente, con ordine e calma». La misura è un meccanismo che dall’interno passa all’esterno, sovvertimento dello sguardo che cerca la verità e tuttavia non la trova «in interiore homine» come ammonisce il noto adagio agostiniano. La profondità nella scrittura di Grazia Livi convoca invece una relazione sessuata prima con la scoperta della propria solitudine, poi con altri soggetti e infine con il mondo. Ecco perché dall’approdo ci si sa volgere indietro senza cancellare i passaggi che hanno portato a quel distacco. Doloroso, come ogni congedo. Eppure dotato di nitore, come ogni riva a cui accostarsi dopo tanta fatica.