Henri Cartier-Bresson, “Sfilata di studenti, con un ritratto di Mao Zedong e la stella rossa”, 1948, Parigi, Fondation Henri Cartier-Bresson

 

La mostra Henri Cartier-Bresson Cina 1948-49 / 1958, fino al 3 luglio al Mudec di Milano, ci permette di ammirare l’opera di uno dei massimi fotografi del Novecento, pioniere assoluto del fotogiornalismo grazie ai due importantissimi lavori dedicati ad altrettanti momenti fondamentali della storia cinese, la caduta del Kuomintang (1948-’49) e il Grande balzo in avanti, il piano economico e sociale promosso da Mao Zedong a partire dal 1958.
Grazie alla collaborazione della Fondazione Henri Cartier-Bresson vengono presentate oltre 100 stampe originali insieme a pubblicazioni di riviste d’epoca, documenti e lettere provenienti dalla collezione della Fondazione.
Nel novembre 1948 Cartier-Bresson è incaricato dalla rivista «Life», per il tramite dell’agenzia Magnum Photos, di documentare attraverso il suo obiettivo la caduta di Nanchino, governata dal Kuomintang, e l’affermazione del Partito Comunista che porterà nell’ottobre del 1949 alla nascita della Repubblica Popolare Cinese. L’incarico, che inizialmente doveva durare due settimane, impegnerà il maestro per ben dieci mesi, permettendogli di raccontare nel suo linguaggio innovativo e poetico le abitudini di vita della popolazione cinese e l’affermazione del nuovo regime.
La grazia, non mi viene altra parola per definire l’opera di Cartier-Bresson: ogni suo scatto era baciato dalla grazia della perfezione. Quali che siano le circostanze che lo condussero in ogni angolo del mondo, alla ricerca dell’angelo della Storia, che poteva trovarsi nel ’37 in Spagna, nel ’44 nella Parigi occupata dai nazisti, nel ’56 in Algeria o non so dove, Cartier-Bresson era lì con la sua Leica a cogliere quell’immagine che lui solo vedeva. Quando smise di fotografare, intorno alla metà degli anni settanta, per dedicarsi alla sua amatissima attività di pittore e disegnatore, fu sommerso dalle preghiere e dalle deplorazioni affettuose: perché mai rinunciare all’incerto per il certo, lui che era il più celebre fotografo del Novecento?
In talune interviste HBC, hachebece come lo chiamavano a Parigi, rispose quasi irritato: non fotografo più con la camera – la mitica Leica ad avvolgimento rapido – ma fotografo con gli occhi ogni giorno. Tutto semplice, le immagini son lì e basta vederle, e questo è il miracolo di Cartier-Bresson: la straordinaria padronanza della misura formale, del rigore geometrico, del calcolo impeccabile di ogni luce e di ogni ombra. Certo lui è tra i più colti fotografi del suo tempo: ha negli occhi la Parigi di Atget, quella di Doisneau, la borghesia affluente di Lartigue, ha memoria di Alfred Stieglitz, di Paul Strand.
Cartier-Bresson l’ho conosciuto nei primi anni sessanta nella redazione di «Nord e Sud», la rivista di Francesco Compagna, un crocevia di reporter, giornalisti e scrittori. Un pomeriggio giunse un signore distinto, con un volto sottile, per fare dei servizi fotografici: chiese qualcuno che conoscesse la città e potesse accompagnarlo. Compagna pensò che fossi la persona giusta e mi diede in consegna questo giornalista francese che aveva pubblicato le sue foto anche su «Il Mondo» di Mario Pannunzio. Per due o tre giorni lo condussi in giro per il centro storico di Napoli. Girammo in lungo e in largo per i decumani, entrando in chiese e androni di palazzi, fermandoci dinanzi ai banchi della frutta e alle pizzerie.
Avevo una qualche informazione dell’identità di HBC, perché a casa mia «Il Mondo» era una lettura abituale di mio padre e io avevo memoria di una spettacolosa foto di Bresson: i due innamorati sul quai della Senna che si baciano avvinghiati senza che si possa vedere nulla se non il loro abbraccio, dall’alto e sul fondo la Tour Eiffel. Camminava a lunghi passi, un po’ reclinato in avanti, con la camera in una mano, e girava lentamente lo sguardo senza alcuna frenesia di fotografare: era laconico lui, per quanto fossi intimidito io, che quando lo vedevo incuriosito aggirarsi in una chiesa o in un palazzo gli davo qualche informazione. Mi chiese dei miei studi e gli dissi che ero studente di architettura: un’arte meravigliosa, commentò, ma lui preferiva la pittura.
Mi rendo conto di aver perso una grande occasione, ma a 19 anni si è imbranati dinanzi a un mostro sacro e io ero pienamente consapevole che lo fosse. Lessi da qualche parte che lui già conosceva Napoli, vi era stato nel 1945, quando la città fu un grande porto di mare per tutti i fotografi del mondo: da Robert Capa a David Seymour, i quali poi con lui crearono nel 1947 a Parigi la celebre agenzia fotografica Magnum. Mi parlò con un certo calore della Napoli del dopoguerra e di come a quel tempo la città gli sembrò una pentola che bolliva a cui d’improvviso era stato tolto il coperchio. Ma tutto era cambiato. Mi disse dei fotoreporter con cui era andato in giro per una città affamata e febbrile che l’aveva impressionato.
Di quella conversazione mi ricordai quando per iniziativa di Giuseppe Castaldo, allora commissario all’Azienda autonoma di soggiorno e turismo, organizzai una serie di mostre invitando fior di fotografi italiani e stranieri sui temi che avevo scelto. Le mostre ebbero un tale successo che la formula dell’invito «a tema» fu replicata da molte città, sia da noi che all’estero.
Pensai di fare una mostra sui fotografi a Napoli nel dopoguerra, i mitici fotografi della Magnum, tutti suoi amici: andai da HBC e mi ricevette nel suo studio, mi mostrò i suoi disegni e mi parlò a lungo solo dei disegni. Gli dissi che mi ricordavano la grafica di Egon Schiele: una risatina, disse che forse avevo ragione. La mostra non si fece perché intanto il committente era cambiato e la Magnum, sulla scorta dalle mia selezione, aveva fatto un preventivo assai salato.
Alcuni anni dopo mi telefonò il direttore della sezione fotografia della Biblioteca Nazionale di Francia per chiedermi se volessi scrivere qualcosa sui disegni di Cartier-Bresson perché lui mi aveva indicato per il catalogo della grande mostra che la Biblioteca si accingeva a realizzare. Vivevo a quel tempo a Parigi e lo chiamai subito per ringraziarlo, e andai a vedere i suoi ultimi disegni: a mio avviso bellissimi. Purtroppo non scrissi quel testo: persi l’occasione per motivi così futili che non ricordo neppure quali fossero.
L’ultima volta che ho visto HCB è stato a Roma nella residenza francese di piazza Farnese per un incontro del tutto informale: era divenuto come di cera, la pelle sottile e quasi trasparente, lo sguardo sempre lo stesso anche se si proteggeva con occhiali scuri. Ne scorsi il guizzo quando li tolse per pulirli.