Nel 1558 si diffuse la notizia che papa Paolo IV, per «accomodar le stanze di palazzo al suo gusto», ovvero per costruire un giardino pensile e delle logge, voleva far demolire alcuni ambienti in Vaticano accanto alla Sala di Costantino e aprire in questa porte e finestre, che sarebbero venute a «ruinar tutta quella pintura così rara di mano di Raphaele». Criticatissimo dall’intera corte pontificia, il progetto fu immediatamente interrotto alla morte del papa e il suo successore, Pio IV, già l’indomani dall’assunzione al soglio, incaricò Taddeo Zuccari di risarcire i danni causati dall’avvio dello sciagurato piano.
Questo episodio, con le sue polemiche preventive e il suo tempestivo risarcimento, attesta una presa di coscienza tutt’altro che scontata: Raffaello era ormai indiscutibilmente diventato ‘Raffaello’, tanto che i suoi affreschi dovevano essere salvaguardati dall’ammodernamento stilistico, così come dalle esigenze del cerimoniale. In altri termini, nel Palazzo Vaticano le logiche di tutela delle opere d’arte erano definitivamente entrate in campo come forze attive nella gestione e nello sviluppo degli ambienti, affiancando più consolidate logiche funzionali e di rappresentanza, in una dialettica tra conservazione e innovazione, tra necessità pratiche e valorizzazione, che sarebbe stata coronata nei secoli successivi dalla costruzione di un complesso sistema espositivo al suo interno, oggi indicato con il nome di Musei Vaticani e frequentato da più di sei milioni di persone all’anno.
Una cifra da capogiro. Qualcosa come tutti gli abitanti di Berlino e Madrid messi assieme. Un cifra condivisa solo da poche altre istituzioni al mondo, tra le quali il Louvre a Parigi e il Metropolitan a New York, e che suggerisce in modo chiaro alcune delle sfide attuali, con cui i grandi musei sono chiamati a confrontarsi: sfide che non erano assolutamente prevedibili al momento della loro fondazione, a iniziare dalla gestione di una pressione antropica senza precedenti. Né sorprende dunque che proprio dai Musei Vaticani sia nata l’esigenza di promuovere l’organizzazione di una giornata di studi curata da Barbara Jatta e Salvatore Settis sulla ‘conservazione preventiva’. Legata al nome di Giovanni Urbani e per molti aspetti di tradizione squisitamente italiana, questa forma di tutela si basa su un concetto semplice: rivolgere all’opera d’arte un’attenzione costante, controllandone le condizioni tanto ambientali (ad esempio con un monitoraggio continuo delle variazioni atmosferiche) quanto strettamente fisiche (non solo rimuovendo la polvere, ma anche analizzandola per scongiurare la presenza di agenti aggressivi), significa ridurre le possibili cause di danni e dunque auspicatamene ridurre sia il numero di interventi di restauro, sia la loro invasività. Si tratta di una via virtuosa, dunque, ideale, lontana dai riflettori, dai circuiti delle grandi mostre, dagli eventi che promuovono il ‘consumo’ dell’opera, tanto quanto di un approdo della tutela straordinariamente fragile, perché esso stesso soggetto a condizioni ‘ambientali’, ovvero politiche ed economiche.
Con il titolo La conservazione preventiva nei grandi musei. Strategie a confronto, la conferenza ha avuto luogo venerdì 12 ottobre nei Musei Vaticani, ha coinciso con la celebrazione del primo decennio di attività dell’Ufficio del Conservatore voluto nel 2008 da Antonio Paolucci, e ha chiamato all’appello i direttori di alcune delle maggiori istituzioni museali del mondo: da Jean-Luc Martinez del Louvre a Gabriele Finaldi della National Gallery di Londra, da Mikhail Borisovich Piotrovskij dell’Ermitage a Miguel Falomir Faus del Prado, e altri.
Ad emergere, in interventi non privi in alcuni casi anche di una gustosa (auto)ironia, sono state di certo le molteplici differenze storiche e culturali di queste istituzioni: l’originaria conformità o meno delle loro sedi, rispetto a scopi espositivi; la gestione, consistenza e dislocazione delle loro collezioni; le varie funzioni sociali assolte e le articolate modalità di accesso permesse al pubblico. Diversissime, di conseguenza, anche le strategie di conservazione messe in campo, spesso per risolvere problemi inattesi: la pioggia, ad esempio, che nei grandi musei londinesi (tradizionalmente gratuiti) fa scattare l’aumento esponenziale dei visitatori; l’umidità della Senna, una minaccia costante per i depositi del Louvre; o addirittura il sole di Versailles, la reggia straordinaria di Luigi XIV trasformata a partire dall’Ottocento in privilegiata meta domenicale della borghesia parigina e ancora oggi un luogo vitale che, come ha sottolineato Laurent Salomé, è nato per e deve continuare a dialogare con la Natura. E da qui una sfida quasi impossibile alla sua ‘conservazione’, almeno in termini strettamente museali. Dal lato opposto, l’altra risposta, quella tecnologica, ad esempio nelle basi antisismiche del Getty di Los Angeles descritte da Timothy Potts: una risposta importante, ma di certo non univoca per gestire al meglio tutti i problemi dei grandi musei.
Tra questi, il principale resta il rapporto con il pubblico, numerosissimo e anche assai eterogeneo: dal turista allo studioso, senza dimenticare il visitatore delle generazioni future, quelle stesse alle quali umanisticamente pensavano forse già i papi della fine del Quattrocento, quando affiancarono alla riscoperta dell’Antico le prime leggi di tutela del patrimonio romano. Svoltosi all’interno del Braccio Nuovo, un ambiente dei Musei Vaticani nato per la conservazione e insieme come testimonianza artistica della contemporanea rivoluzione (culturale prima che visiva) neoclassica, il convegno ha trovato modo di ribadire l’importanza che ‘la partita non si giochi solo in difesa’ grazie all’accorato intervento di Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, incentrato sulla necessità di legare tutela a ricerca, secondo una logica inespugnabile: meglio si comprende cosa si ha davanti, più facile è conservarlo.
Nelle epoche migliori è sempre stato così, anche quando si trattava di Raffaello