L’elaborazione del concetto gramsciano di rivoluzione passiva si colloca fra le analisi di Franco De Felice e di Christine Buci-Glucksmann del 1977 e gli sviluppi successivi. A partire proprio dalla periodizzazione degli studi intorno al concetto ha operato Massimo Modonesi nella realizzazione e curatela di un volume dedicato alla questione: Rivoluzione passiva. Antologia di studi gramsciani (Unicopli, pp. 294, euro 22,00).
Scorrendo l’indice del libro balza agli occhi in modo immediato il salto cronologico fra i primi tre contributi, i due già ricordati e quello di Javier Mena e Dora Kanoussi (1985), e gli altri sette (Morton, Coutinho, Voza, Di Meo, lo stesso Modonesi, Frosini e Antonini) realizzati fra il 2007 e il 2019.

IL CURATORE sottolinea come la «maggior fortuna» del concetto di rivoluzione passiva a partire dalla seconda metà del primo decennio del XXI secolo possa essere attribuita ad un clima generale di sconfitta che ha investito la sinistra conducendo alla «scoperta della produttività teorica e analitica della categoria di rivoluzione passiva»: da una lettura politica ad una lettura filologica.
La specificità del concetto in Gramsci è nell’accostamento alla «rivoluzione-restaurazione» (o «rivoluzione senza rivoluzione»). Secondo Gramsci, tutto il processo della modernizzazione europea può essere letto alla luce della rivoluzione passiva, cioè come, per usare le sue parole, il mantenimento del «potere economico-corporativo in un sistema internazionale di equilibrio passivo», come l’«aspetto passivo della grande rivoluzione che si iniziò in Francia nel 1789». Molto si insiste, perciò, nei saggi del volume sull’accostamento della rivoluzione passiva all’egemonia. E questo sembra essere ancora più valido per il nostro Risorgimento nel corso del quale un gruppo dominante ha «decapitato» l’avanguardia del gruppo avversario, all’interno del quale, soprattutto in fase di consolidamento della componente governativa, giocò un ruolo fondamentale il trasformismo (fase parlamentare della stessa rivoluzione passiva). Da ciò può sortire l’immagine di una storia totalmente piegata alla rivoluzione passiva, ossia una storia come storia della rivoluzione passiva il cui continuum sarebbe stato interrotto da eventi rivoluzionari che, però, si sarebbero conclusi con una ripresa del corso precedente della storia; insomma, in questa ottica, gli eventi rivoluzionari non avrebbero mai un valore epocale (forse non lo hanno mai avuto?).

IN MODO PARTICOLARE intorno a questo punto, si è svolta una vivace discussione nel corso di un seminario online che la International Gramsci Society – Italia ha voluto dedicare alla rivoluzione passiva (ovviamente a partire dal volume curato da Modonesi). Ad alcune delle autrici e degli autori dei saggi si sono aggiunti – coordinati da Guido Liguori – Eleonora Forenza e Peter Thomas in qualità di discussant. È certo che Gramsci accenna a considerare come una variante di rivoluzione passiva il fordismo americano, che evita i possibili esiti catastrofici della crisi del ’29, anche con parziali concessioni (alti salari) ai lavoratori, e giudica rivoluzione passiva lo stesso fascismo in quanto si presenta nell’Italia degli anni Trenta come la manifestazione di un progetto di rivoluzione-restaurazione, cioè di rivoluzione passiva, che trova il suo antecedente storico in quello che le classi dominanti-dirigenti fecero agli albori dello Stato unitario per annichilire il movimento risorgimentale che, di quello Stato, era l’origine.
Nella sostanza il moderatismo di cui il processo risorgimentale fu pervaso si manifestò in un riformismo che non nasceva sul terreno puro e semplice di una sorta di determinismo storico, ma si realizzava come progetto culturale che si sommava al progetto politico della rivoluzione passiva risorgimentale, attraverso un processo molecolare.

DA QUI LO STESSO FASCISMO che tutto fu meno che una parentesi. In queste fasi della storia, però, i subalterni non si limitarono alla semplice «passività», a subire l’egemonia dei dominanti, ma si collocarono nell’ottica della guerra di posizione (Gramsci la definisce come «assedio reciproco» tra le classi nella società capitalistica). Ma, per agire nell’epoca della rivoluzione passiva contemporanea combattendo una nuova guerra di posizione con qualche possibilità di riuscirne vittoriosi, i gruppi subalterni avrebbero bisogno di quel convitato di pietra, purtroppo non più preso in considerazione stante l’articolazione plurima e discorde della sinistra, che si chiama partito politico (il moderno Principe di Gramsci). E il discorso, a questo livello, assume di nuovo una torsione meno filologica e più politica, più prossima alla filosofia della prassi.