La traduzione di Gramsci in lingua inglese è stata fondamentale per la sua ricezione globale, specie nei paesi di nuova indipendenza dove il suo pensiero ha fecondato i postcolonial studies, i subaltern studies e i cultural studies. Di quest’opera di traduzione il massimo protagonista è stato appunto Joseph Buttigieg, scomparso quando aveva già licenziato alle stampe i primi otto quaderni. (…)

I saggi di Buttigieg sono permeati dall’idea che lo scavo dell’opera del sardo non possa mai restare in un perimetro accademico e debba sempre collegarsi – per restare fedeli al maestro – da un lato alla funzione militante dell’intellettuale impegnato nelle sfide del suo tempo e, dall’altro, a una ricerca culturale non disgiunta dal sostrato popolare e sociale, mai rinchiusa nella torre d’avorio di un sapere inteso in termini angustamente illuministici ed elitari. Buttigieg coglieva queste tendenze già nell’epoca del «riflusso», ma esse si sarebbero accentuate passando per la caduta del Muro di Berlino e l’accelerarsi dei processi di deterritorializzazione del capitale. Il distacco dei soggetti politici derivanti dal movimento operaio e degli intellettuali progressisti dalla base popolare divenne sempre più forte fino ad arrivare all’attuale backlash sovranista-populista. Lo studioso maltese non ritiene che nelle pagine di Gramsci vi siano le soluzioni per i problemi dell’oggi, dato appunto che le condizioni in cui egli si trovò ad operare erano molto diverse dalle nostre, ma era convinto che nei vi fossero strumenti e categorie utili per comprendere la nuova realtà del mondo globalizzato (…).

BUTTIGIEG (…) rilevava come Gramsci non potesse essere imbalsamato in una dogmatica, ma letto sempre in modo critico perché non c’è nessun modo corretto» di interpretarlo. Dopo la caduta del Muro di Berlino (…) denunciava la deriva «neolalica» degli intellettuali progressisti che collocandosi lontano dai ceti popolari di fatto contribuiscono a puntellare il dominio a cui dicono di opporsi.
Si andava infatti consolidando un’élite «cosmopolita» sganciata dal sostrato nazionale-popolare, incapace di affrontare i più stringenti nodi politici e sociali. È cioè quella costellazione ideologica che secondo Nancy Fraser, ispirata anche da Gramsci, ha fiancheggiato la formazione del neo-liberismo «progressista», apparentemente fautore dei diritti umani, ma in realtà ben dentro il solco delle politiche di Reagan e Thatcher dal punto di vista delle ricette socio-economiche e principale responsabile dell’attuale reazione anti-liberale (…). Buttigieg sottolinea con forza come società civile in Gramsci non sia una categoria da contrapporre allo Stato, bensì una parte dello Stato stesso, anzi quella parte in cui la classe dominante puntella il suo potere attraverso l’egemonia. Ma l’egemonia nella società civile non significa prevalenza in una competizione egualitaria con comuni regole del gioco, bensì affermazione della classe dotata di maggiore potere materiale (…).

Buttigieg mira a disinnescare l’utilizzo di Gramsci con cui, a cavallo fra anni ’80 e ’90, si cerca di legittimare la vittoria del mondo capitalistico sui regimi comunisti. D’altra parte è vero che nell’intellettuale comunista agisce un retaggio liberale della sua formazione tesa fra Croce e Salvemini, ma questa si incontra con la «fine dello Stato» marxiana e rifluisce non certo in una esaltazione della società civile come luogo in cui la democrazia si sposa con il libero mercato, ma nell’idea di un luogo in cui con l’abolizione dello sfruttamento e del dominio di classe si renda inutile la società politica: lo Stato e la società civile si vanno così a identificare in una spontanea adesione dei soggetti alle istituzioni comuni. Certo una prospettiva irrealistica – aggiungiamo noi – ma inassimilabile sia al comunismo sovietico, sia al capitalismo neoliberista (…) La democrazia è quel sistema in cui il potere si esercita attraverso il consenso e in cui i media sono fondamentali per garantire un consenso della maggioranza dei cittadini nonostante che le politiche effettuate vadano a loro svantaggio.

DI QUI LA NECESSITÀ di studiare l’influenza dei media e delle concentrazioni proprietarie sulla politica come tema specificatamente gramsciano (…). Buttigieg, cioè, vedeva compiersi la parabola che aveva iniziato a osservare negli anni ’80. David Harvey parlava di una strategia egemonica basata su istituzioni accademiche, culturali e mediatiche, volte a disseminare nella società civile un senso comune diffuso di tipo neoliberale, intessuto oggi anche nel suo contraccolpo sovranista di «populismo di mercato». L’interesse nei Quaderni per l’industria culturale era legato proprio alla consapevolezza che sempre più nel suo campo la nuova società di massa giocava la partita del potere.

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SCHEDA. DA OGGI IN LIBRERIA

L’articolo è un’anticipazione dal libro che esce oggi per le edizioni Mimesis (collana Storia del pensiero politico italiano), dal titolo «Gramsci in inglese. Joseph A. Buttigieg e la traduzione del prigioniero», a cura di Salvatore Cingari ed Enrico Terrinoni (pp. 314, euro 26). Il volume – attraverso il contributo di vari studiosi di Gramsci, fra cui Guido Liguori – prova ad affrontare, per la prima volta in Italia in modo organico, la figura di Joseph Buttigieg, il più importante traduttore dell’intellettuale sardo in inglese e a chiudere il testo – alcuni saggi sulla sua ricezione nel mondo anglofono e sul tema del rapporto con le classi popolari.