Nemico giurato dei miasmi che provocano il voltastomaco, il fisico Jean-Noël Hallé va a caccia di sentori e esalazioni in giro per la sua città: il 14 febbraio 1790 va su e giù lungo gli argini della Senna per reperire i fetori, archiviandoli in un’improbabile rilevazione olfattiva: il suo lavoro certosino è una specie di catalogo dell’imprendibilità dell’aria attraversata da puzze diverse.

Partendo da qui, lo storico Alain Corbin ha avuto l’idea di provare a redigere un grande affresco della Storia sociale degli odori in un libro edito (ormai anni fa) in Italia da Arnoldo Mondadori: un «atlante» che spazia fra due secoli, cogliendo le metamorfosi di un senso così negletto in tempi più recenti e le sue potenzialità nel narrare un mondo parallelo a quello magnificato nelle gesta eroiche o in epopee belliche.

Oggi, mentre il divieto di contatto dettato dall’emergenza del virus porta ognuno di noi ad acutizzare sensi dimenticati (oltretutto, la malattia agisce proprio sull’olfatto, offuscandone le capacità predittive in un ambiente), quando le città riacquistano i loro profumi ed effluvi grazie alla desertificazione umana dovuta alla quarantena, quel potente volume può essere ripreso in mano come vademecum per immaginare un futuro diverso.

In periodi di epidemie, scrive Corbin, l’uomo si è sempre «aromatizzato» per difesa, ha affidato la sua salute – anche mentale – all’olfatto. Ad esempio, per tenere lontano il contagio e rendere antisettica l’aria, lo storico francese Jean Pierre Papon raccomandava: «si tenga in mano una spugna imbevuta di aceto o un limone steccato di chiodi di garofano, ovvero una palla odorosa, annusandola di tanto in tanto».

Non è così casuale, quindi, che nel raffinato libro appena pubblicato da Gribaudo La grammatica dei profumi (pp.224, euro 19,90, illustrazioni di Michele Rocchetti che, in sessanta tavole, reinterpreta piante e loro rappresentazioni), la ricercatrice nell’arte profumiera Giorgia Martone metta a punto un alfabeto emozionale delle essenze, affondando nelle radici di antichi riti e tradizioni millenarie. La sapienza terapeutica delle fragranze è nota fin dalla notte dell’umanità: in molte cerimonie – non ultimo lo spargimento dell’incenso nelle chiese – il «buon odore» aveva il dono magico di proteggere dalle influenze malefiche.

C’era chi cuciva batuffoli di ovatta imbevuta di profumi nei corsetti contro la malasorte, chi annusava garofano rosso e spargeva sugli abiti angelica polverizzata per tenere lontano il morbo quando l’aria era pestilenziale.
Per Aristotele, l’olfatto era un senso fuggevole, ma selvaggiamente collegato con le funzioni vitali (la respirazione e il ricambio d’aria nei polmoni) tanto che le scie aromatizzate venivano direttamente intrecciate con l’idea di un corpo sano. Nel susseguirsi delle epoche storiche, però, gli inafferrabili paesaggi olfattivi hanno lasciato il posto alla vista come senso primario del nostro essere al mondo. Fu il Settecento a retrocedere in seconda fila la pregnanza degli odori, ma già alla metà dell’Ottocento se ne recuperavano i contorni sentimentali e affettivi – basti pensare ai fazzoletti imbevuti di sostanze profumate come pegno d’amore.

Il libro di Martone riconduce alla volatilità del naso (già su queste pagine aveva proposto un percorso tra il mitologico e il biblico, nel luglio scorso, Raffaele Salinari https://cms.ilmanifesto.it/il-profumo-incanto-e-sortilegio/). E propone un viaggio avventuroso nelle «case» dove vivono le essenze aromatiche, divise in diverse famiglie: agrumi, aromatiche, fiorite, legnose, muschiate e così via. Ne individua poi le «note», che possono considerarsi una sorta di dna del profumo: ci sono quelle «di testa», tendenzialmente fugaci, pronte a svanire nel ricordo quasi subito pur se intense; quelle «di cuore» che riescono a perdurare nel tempo ma non più a lungo di due ore e, infine, quelle «di fondo», che incontrano nel loro albero genealogico resine e sostanze ambrate.

Oltre a spiegare i metodi di estrazione e la creazione delle sintesi, il volume si inoltra lungo le strade degli odori, arrampicandosi su cortecce, annusando petali, inseguendo traspirazioni inattese e presentando accordi armonici e dissonanti, come avviene nei colori. Così ci si imbatte nella storia del legno di cedro, nella «palette dei nasi» riconosciuto come l’aroma delle mine della matita, ma più anticamente profumo dell’immortalità (gli Egizi lo usavano per i bendaggi dell’imbalsamazione). D’altronde il legno stesso ha una longevità incredibile, può vivere fino a cinquemila anni. Leggenda vuole che il Palazzo di Ninive e anche il Tempio di Gerusalemme fossero impregnati delle sue esalazioni aromatiche, costruiti intorno alla sua «saggezza» odorosa.
L’affumicato cipriolo, un’erbacea dell’India, che resiste negli ambienti più impervi, possiede invece la fragranza della meditazione ma anche, più prosaicamente, delle tecniche seduttive, dato che si usava profumare i sari femminili con i suoi olii essenziali.

La spremitura dell’arbusto tropicale del frangipani (o plumeria) porta con sé un odore misterioso, lunare e speziato. Prende il nome da un italiano, il marchese Muzio Frangipani: fu lui, secondo le narrazioni, a realizzare un profumo che ricordava quello dei fiori di plumeria. Oggi è una pianta diffusa in Sicilia (come pomelia) e le sue origini affondano nelle leggende di esploratori e avventurieri, ma per quel suo alone notturno invita alla pace e alla calma dei sensi.
Al contrario, è imbevuta dei raggi del sole la santolina, inaddomesticabile pianta delle dune, che ama l’altitudine e la salsedine e costella l’area mediterranea. Profuma di liquirizia e rimanda alla luce.