Nel 1984, all’uscita del romanzo che gli valse la prima candidatura al Booker Prize, Il paese dell’acqua, Graham Swift spiegò il suo ricorso a elementi della magia e della superstizione popolare per raccontare il rapporto tra passato individuale e memoria collettiva. Una dozzina di anni più tardi, commentando il Booker Prize, vinto con il romanzo Ultimo giro, ribadiva che «Le storie cominciano quando la stranezza entra nelle nostre vite, così come ha sempre fatto e sempre farà, perché la vita è, per quanto cerchiamo di addomesticarla, costantemente, meravigliosamente, pericolosamente strana».

A confermare la coerenza dello scrittore londinese, arriva ora nelle nostre librerie Grandi illusioni (traduzione di Serena Prina, Neri Pozza, pp.159, € 17,00), novella interamente sostanziata dalla magia e dal perturbante che ne fa da corollario, e al tempo stesso saldamente radicata nella ben precisa realtà spazio-temporale di Brighton, nell’agosto del 1959.

Al centro della vicenda è il «trio sbilenco» formato da un illusionista, Ronnie, la sua assistente nonché fidanzata, Evie e Jack, un «song-and-dance man», rivisitazione aggiornata del prototipo di tutti gli istrioni da music hall, l’Archie Rice protagonista del dramma The Entertainer di John Osborne, divenuto nella non sempre ineccepibile traduzione italiana, «cantastorie ballerino». I tre intrattengono, ogni sera sul molo, e con grande successo, i vacanzieri, offrendo loro uno spettacolo di varietà: i primi due sono le star, il terzo fa da presentatore e maestro di cerimonie.

È l’ultima estate degli anni Cinquanta, nell’aria già si avverte quel «momento di tristezza in ogni vacanza, quando cominci a pensare: ne è rimasta solo così poca adesso, poi si torna alla realtà». Compito del mago e della sua compagna è far dimenticare, con i loro trucchi, il ritorno a una contingenza che sta per trasformarsi in maniera radicale.

Il mondo «prima della rivoluzione», quello rappresentato dal music hall, dalle magie di Ronnie, dal suo mantello che lo rende simile a «un fratello minore del conte Dracula», dal succinto costume di piume e lustrini della bellissima Evie e dalle battute da avanspettacolo di Jack.

Swift è abilissimo nel riprodurre un’Inghilterra che di lì a poco scomparirà definitivamente, «tra la fine del bando a Lady Chatterley / e i Beatles con il primo trentatré», secondo i versi ironici di Philip Larkin. Evie ricorda quell’estate lontana cinquant’anni dopo, nel primo anniversario della morte del marito, Jack. Impariamo così, fin dalle primissime pagine del romanzo, che il matrimonio tra il mago e la sua assistente, previsto per metà settembre, non ha mai avuto luogo, e che, invece, Evie ha sposato l’intrattenitore, ed è restata insieme a lui per mezzo secolo, mentre Ronnie è sparito, dopo l’ultimo spettacolo della stagione, concluso con uno strabiliante atto di magia che Swift svela soltanto al termine della vicenda – e dell’unica giornata in cui si snoda il tentativo della donna di riannodare le fila del passato.

Grandi illusioni, tuttavia, non è la storia di un triangolo amoroso raccontata attraverso i flashback di un’anziana signora: l’intera vicenda è raccontata da una terza persona la cui intensa voce autoriale ingloba ogni altro punto di vista, fino ad annullare l’idea classica di narrazione onnisciente, come già accadeva nel precedente, bellissimo, lavoro di Swift, la novella Giorno di festa. Spostandosi di continuo nel tempo, ora indietro, dal 1959 a quel 1939 quando Ronnie, bambino del quartiere operaio di Bethnal Green, fu sfollato presso una ricca magione di campagna, ora in avanti fino al presente della vedova Evie, Grandi illusioni appare come un affascinante atto di magia narrativa, un gioco di specchi in cui si susseguono e s’intrecciano le ombre fantasmatiche di molteplici sparizioni, persino una mise en abyme metanarrativa della magia implicata nell’atto di raccontare; tuttavia, definire il romanzo, come hanno fatto diversi recensori anglosassoni, «un gioco di prestigio narrativo», è estremamente riduttivo: non è uno scherzo postmoderno, bensì un prodotto narrativo ammaliante per il suo carattere archetipico e favolistico.

Ronnie, Evie e Jack sono figure della gioventù che scompare, lasciando solo il ricordo delle illusioni che la abitavano, come suggerisce l’epigrafe da Jony Mitchell, «It’s life’s illusions I recall». Non c’è atto di magia che possa restituire il tempo trascorso, gli affetti svaniti, le persone scomparse: «E cos’è più straordinario, che i maghi possano trasformare le cose in altre cose, far persino scomparire le persone, o che le persone possano comunque un giorno essere lì … e il giorno dopo non esserci più».