«Ci sono scrittori miopi nella descrizione e scrittori presbiti. Quelli per i quali anche i più piccoli oggetti in primo piano arrivano con una nitidezza a volte miracolosa – ma, anche se niente si perde della madreperla di una conchiglia o della grana di una stoffa, lo sfondo è del tutto assente – e quelli che sanno cogliere unicamente i grandi movimenti di un paesaggio, decifrare la faccia della terra quando si mette a nudo. Tra i primi: Huysmans, Breton, Proust, Colette. Tra i secondi: Chateaubriand, Tolstoj, Claudel. Rari sono gli scrittori che diano prova, penna in mano, di una vista assolutamente normale». Se assecondiamo questo assunto, ricavato da Letterine, quale posto attribuiremo a chi lo redasse? Si tratta di un autore miope, presbite o uno dei rari scrittori che riesca a conciliare l’attenzione spasmodica per il dettaglio con le descrizioni di un mondo naturale e, a suo modo, macroscopico?
È difficile rispondere a questa domanda, soprattutto dopo aver affrontato un libro spiazzante come La riva delle Sirti, riproposto da L’Orma Editore (pp. 336, € 21,00) nell’ormai classica versione di Mario Bonfantini che, con l’eccezione di qualche arcaismo, non sembra risentire del peso degli anni. L’autore, Julien Gracq (pseudonimo di Louis Poirier, 1910-2007), è ancora poco conosciuto nel nostro paese, nonostante alcuni suoi lavori di rilevante importanza siano stati tradotti tempestivamente. In Francia è considerato l’ultimo dei classici e, non a caso, ha avuto il raro privilegio di essere incluso, ancora vivente, nella «Bibliothèque de la Pléiade» di Gallimard (Œuvres complètes in due volumi). La sua prosa è stata definita da un critico «più esatta di Chateaubriand, più musicale di Stendhal, più sensuale di Proust». Lo stesso pseudonimo deriva dal nome del protagonista del Rosso e il nero stendhaliano curiosamente coniugato a quello dei Gracchi. E poi un ventaglio di ascendenze eterogenee: Balzac, Poe, Verne, il romanzo gotico, la scoperta di Sulle scogliere di marmo di Jünger di cui diverrà amico.
Le stimmate del capolavoro
La riva delle Sirti è un romanzo difficile e affascinante che esibisce le stimmate del capolavoro. Apparve nel 1951 presso l’editore dei surrealisti José Corti, cui l’autore rimase fedele per tutta la vita dopo che Gallimard aveva rifiutato di pubblicare il suo libro d’esordio. E, fin da subito, occorre rilevare l’empatia creatasi con Breton, di cui Gracq si occuperà a livello critico. Anche se, sostanzialmente, bisogna considerarlo un isolato, un outsider, lontano mille miglia dalle direttive dogmatiche dei surrealisti e dall’écriture automatique, attento piuttosto a consolidare un piano di costruzione romanzesca cartesiano nonostante le frequenti incursioni in dimensioni oniriche e fantastiche. Si consideri oltretutto che i surrealisti aborrivano il romanzo, considerato alla stregua dell’opera passatista per antonomasia, anche se lo stesso Breton si cimenterà in questo genere con Nadja e L’amour fou, molto apprezzati da Gracq, al pari del romanzo-collage La femme 100 têtes di Max Ernst.
Anonimo insegnante di storia e geografia nei licei, figura schiva e rigorosa, dal profilo aristocratico e, al contempo, ascetico, Gracq è sempre stato autore poliedrico. Prima di La riva delle Sirti aveva alle spalle i romanzi Au château d’Argol (1938) e Un beau ténébreux (’45), la raccolta di prose poetiche Liberté grande (’46), la pièce teatrale Le Roi pêcheur (’48), il saggio André Breton, quelques aspects de l’écrivain (’48) e il pamphlet La Littérature à l’estomac (’50) in cui, con piglio polemico, si dissociava dal processo di spettacolarizzazione della scrittura avviato dall’establishment letterario in quegli anni nonché dalle derive dell’esistenzialismo.
Gracq divenne famoso in seguito al rifiuto di accettare il premio Goncourt nel 1951 proprio per Le Rivage des Syrtes, anticipando di oltre un decennio la rinuncia del «nemico» Sartre a essere insignito del Nobel. Sull’onda della querelle che scatenò oltralpe l’atteggiamento di Gracq, in Italia si allestì ipso facto la traduzione del romanzo, affidata a Bonfantini: uscì l’anno successivo nella mondadoriana «Medusa», per essere ristampata da Guida nel 1990 (il libro venne musicato da Luciano Chailly nel ’59). Molti critici parlarono dell’influenza esercitata sulla temperie dell’opera da Il deserto dei tartari di Buzzati ma Gracq fu alquanto preciso al riguardo dichiarando che «La riva delle Sirti deve qualcosa non al Deserto dei tartari come spesso è stato detto (mentre io non lo conoscevo) ma all’inizio di La figlia del capitano di Puškin». Si tratta di una narrazione atipica, di taglio quasi metafisico, dominata dal senso dell’attesa per qualcosa che non avverrà mai: «Non accadeva nulla. Era una tensione leggera e febbrile, l’ingiunzione d’una inafferrabile ma perpetua messa in guardia, come quando ci si sente presi nel campo di un cannocchiale». Le vicissitudini del protagonista Aldo che, con un manipolo di accoliti, deve sorvegliare, per conto del principato di Orsenna, il tratto di costa che separa l’Ammiragliato di Maremma dalla potenza nemica del Farghestan, si inscrivono metaforicamente nel clima culturale dell’epoca, governato dalla «guerra fredda», anche se probabilmente l’autore aveva in mente la precarietà che contrassegna, per dirla alla Malraux, La condition humaine.
Osserva Roger Aïm in Julien Gracq, l’ultimo dei classici, edito da Portaparole nel 2014: «Il Romanticismo tedesco, la letteratura fantastica, il Surrealismo e il mito del Graal hanno ispirato fortemente l’universo di Julien Gracq. Diversi elementi concorrono a far nascere il “sentimento magico” che si prova nello scoprirlo, in particolare il tempo dell’attesa, la definizione del luogo e la caratterizzazione dei personaggi. L’attesa, pietra angolare che struttura e organizza i suoi romanzi, è uno spazio romanzesco che non riguarda né il passato né il presente né il futuro».
Gli studi di geografo
In quest’ambito lo stile di Gracq, ipnotico, preciso, sorvegliatissimo, risente dei suoi studi di geografo: un genius loci rintracciabile nei titoli dei suoi libri, da Un balcon en forêt (1958) a La Presq’île (’70) a La forme d’une ville (’85) per arrivare fino al resoconto romano di Autour des sept collines (’88). Il motivo del paesaggio acquisisce una valenza gnoseologica, arrivando a far scrivere all’autore nel citato Letterine: «Non dimentico mai un paesaggio che ho attraversato». Non è un caso che, nella Riva delle Sirti, le descrizioni paesaggistiche siano innumerevoli, concentrandosi sulla «fantasmagoria di brume» che sembra inghiottire i personaggi stessi della trama: il capitano Marino, l’ufficiale Fabrizio, la sognante Vanessa che disquisiscono con il protagonista intorno a una guerra sempre rimandata. I topoi mitici e favolosi descritti nel libro (Orsenna, Sagra, Vezzano) si incidono nella memoria con la perentorietà con cui un fossile si incista all’interno di una roccia. «Mi sentivo complice con il pendio di quel paesaggio che scivolava verso l’assoluta nudità. Era fine e inizio» si legge in un passaggio del romanzo.
Tutto è essenziale e, al tempo stesso, superfluo. Sembra di leggere un libro di Conrad dalla trama scheletrica, in cui la psicologia dei personaggi si rapporta emblematicamente a un paesaggio duro come pietra, intricato come sterpaglia, in prossimità del mare delle Sirti baluginante sotto un cielo ovattato di foschia. Il silenzio è un silenzio atavico, i personaggi si muovono «in mezzo alle bizzarre costruzioni e alle sconcertanti chiazze di luce d’un teatro vuoto», filiformi ombre cinesi in uno scenario lunare. «Come un’aquila, – sentenzia Aïm – la sua vista panoramica ha la capacità di diventare tanto acuta da fare di lui un cacciatore dei minimi dettagli». È ancora il caso di chiedersi com’era la «vista» di Gracq?