True crime nell’Ontario ottocentesco. Se la sincronia tra l’arrivo in streaming del nuovo adattamento del romanzo distopico di Margaret Atwood The Handsmaid’s Tale e la vittoria «maschile» di Trump ha fatto molto parlare di sé, è un’altra fiction adattata dalla scrittrice canadese a offrire il pov femminista più provocatorio e interessante.

Finanziata da Netflix, scritta e prodotta dall’attrice/regista Sarah Polley e diretta dalla regista di American Psycho, Mary Harron, si intitola Alias Grace ed è ispirata al caso di una cameriera sedicenne, Grace Marks, condannata per l’omicidio del padrone e della governante della casa in cui lavorava. Ancorata a una serie di conversazioni tra Grace (in prigione da anni) e uno psichiatra (immaginato da Atwood), Alias Grace si snoda in una serie di flash back inanellati nel racconto di Grace (l’attrice di Cronenberg, Sarah Gadon), Sherazade camaleontica che oscilla tra l’indifeso, il seducente, il mendace, il tragico e il manipolatorio. Ed è sempre «in control».

Ne abbiamo parlato con Mary Harron.

Ho trovato Grace molto interessante perché tratta di un personaggio proattivo, non di una semplice vittima.

Il gioco di potere tra lei e il dottore mi è piaciuto subito. Grace è al fondo della scala sociale – una ragazza della classe operaia condannata per omicidio. Lui è bello, colto, di buona famiglia, e conduce le interviste. Eppure, già entro la fine del loro primo incontro, si trova in difficoltà. È lei a controllare le loro conversazioni, rivelando solo quello che vuole, e usando a suo vantaggio l’attrazione reciproca. Ci sono cosi poche situazioni in cui un personaggio nelle sue condizioni può esercitare controllo e lei lo sfrutta al massimo. Alla fine lo spezza come un fiammifero.

Quanto la serie è fedele al romanzo?

La qualità onirica, a cavallo tra realtà e non, era già sulla pagina. Ma nella sceneggiatura Sarah ha usato quasi solo la narrazione di Grace, escludendo quella di altri personaggi. La storia ci arriva dalla sua voce. È quello che lei ci fa credere. In quel racconto io ho dato per vere la sua infanzia, la morte della madre e della sua amica, Mary Whitney, dopo un aborto fallito. Secondo me la morte di Mary è il peccato originale da cui nasce tutto, che scatena il resto degli eventi.

È un caso su cui è stato scritto molto?
No. Ci sono referti del tribunale e gli appunti di una scrittrice canadese, Susanna Moodie. Rimarrà sempre un mistero irrisolto, anche se il caso generò molta attenzione. Il personaggio del prete, interpretato da David Cronenberg, rappresenta per esempio un gruppo di riformatori progressisti che nel Canada di quel tempo difendevano i diritti d’immigrati irlandesi come Grace, contro la classe dominate inglese e scozzese. Alla fine i riformisti hanno vinto, e Grace è stata rilasciata dalla prigione.

Ma la domanda rimane: se non è colpevole o complice degli omicidi, perché non ha detto nulla? Aveva paura? Oppure odiava il padrone e la governante. Atwood è molto brava a raccontare l’antagonismo tra donne. Perché è vero che spesso gli oppressi si attaccano uno con l’altro. E che una vittima non è necessariamente nobile, o santa. L’abuso può corromperti, distruggerti dentro.

L’altro giorno la senatrice Kristen Gillibrand ha detto che oggi ogni donna va creduta e basta e non si devono fare differenze tra un commento pesante o uno stupro, perché le donne sono state vittimizzate troppo a lungo. Piuttosto che concentrarsi sul gender, come fa The Handsmaid’s Tale, Alias Grace mette l’accento sul dato di classe.

Il ruolo della classe sociale è importantissimo. Ragazze come Grace erano vittime di predatori perché appartenevano alla servitù. Sedotte con false promesse, come succede all’amica di Grace, Mary, o semplicemente violentate, erano usate come risorse sessuali da uomini delle classi alte per preservare la verginità delle donne del loro ceto. In questo senso, anche la ricostruzione d’epoca era emblematica. Ho assunto mio marito – che è un fotografo da set – per la seconda unità. In particolare perché girasse certe inquadrature in macro di Grace che scrive, che ricama, o di certi utensili.

Il dettaglio sul lavoro era fondamentale. A sedici anni ragazze come Grace avevano incombenze fisicamente faticosissime. Mostrarlo mi sembrava interessante anche dal punto di vista narrativo. Volevo fare un dramma d’epoca ma anche sovvertirlo. Amo la letteratura ottocentesca ed ero attratta dall’idea di filmare il passato senza romanticizzarlo, evitando la qualità confortevole di certi film in costume.

Sarah Polley ti ha spiegato perché ha voluto che tu dirigessi la serie?

Le era piaciuto il mio ultimo film, The Moth Diaries, in particolare le sequenze di sogno. E poi, immagino, ci fosse il fatto che American Psycho oscilla tra la realtà e l’immaginazione del protagonista. Non so perché ma come regista non ho problemi a esplorare zone scomode, difficili. Sarah nei suoi film non ha mai filmato la violenza, come invece ho fatto io, specialmente in American Psycho. Non è un soggetto che mi piace affrontare sempre, ma quando lo faccio deve lasciare un segno. Quello con Sarah è stato un equilibrio interessante. Non sapevo come avrei girato certe scene, come quella dell’ipnotismo.

Come girare il monologo di un personaggio con il volto nascosto da un velo? Così ho introdotto una dimensione teatrale, l’ipotesi che sia un atto di recitazione – Grace indossa sempre delle maschere. Ma è anche una scena carica di verità emotiva. L’unica in cui può esprimere la rabbia che a donne come lei non era dato manifestare. Che la sua versione dell’omicidio sia vera o meno, la rabbia è autentica. È un momento per il pubblico di soddisfazione ma anche di paura. Credo sia realistico e politicamente importante ricordare che le persone abusate a un certo punto reagiscono. L’oppresso si ribella.

Ti aspettavi un’ondata come #MeToo?

Onestamente no. Il caso abominevole di Weinstein a parte, ma per il resto si tratta in spesso di cose che sono successe a noi tutte e che abbiamo gestito in un modo o nell’altro, dandole per scontate. Playboy mi ha chiamata chiedendomi un’intervista «sulla rabbia delle donne». Ho obiettato chiedendo se si tratta veramente di rabbia o di una risposta, come quella che dà Grace, a quello che è loro successo. Grace non esprime la sua rabbia direttamente, la sopprime. Atwood esplora quella soppressione. E la forma esorbitante che quella rabbia prende quando esce.

Stai lavorando a un altro film con donne in carcere, sulle ragazze della gang di Charles Manson.

Mi piace molto l’approccio della sceneggiatrice, Guinivere Turner. Secondo me c’è un’unica ragione per raccontare quella storia. Come e successo? Manson era folle, ma i sui seguaci no Erano persone ordinarie, che non avevano storie tormentate come la sua. Come mai hanno completamene cancellato la loro volontà individuale, ucciso il loro ego? Quello è l’aspetto che mi interessa. Certo, mi incuriose perché’ certe donne accettano rapporti con uomini che le abusano, o fanno quello che viene loro detto. Ma è una domanda allargata – quegli omicidi erano così pazzescamente dissociati dalla realtà!