Klaus Krüger

 

Nel 1394 Guido di Bari era a Firenze. Un’anonima cronaca racconta che i fiorentini si dovettero affrettare a coprire un affresco che si trovava sulle pareti esterne del Palazzo del Podestà (l’attuale Bargello) affinché Guido non vedesse che al Duca d’Atene, Gualtieri VI di Brienne, cui era legato da parentela, era stato applicato il trattamento riservato ai traditori, ai ladri e ai condannati: gli era stato, cioè, dedicato un affresco infamante. «Avaro, traditore, e poi crudele; lussurioso, ingiusto e spergiuro; giammai non tenne suo Stato sicuro». Così uno dei cartigli, già molto guasti, che Filippo Baldinucci riuscì ad annotare negli anni ottanta del Seicento.
Dell’affresco, perduto, abbiamo una vivida descrizione di Giorgio Vasari che, in entrambe le edizioni delle Vite (1550 e 1568, nelle pagine dedicate a Giottino), ricorda come fu dipinto «per dispregio» il Duca d’Atene affiancato dai suoi consiglieri. E, come se non bastasse, oltre alle iscrizioni, ai ritratti e ai simboli, erano raffigurate anche le armi dei casati di questi illustri cittadini. La vicenda era l’ultimo atto del disastro che i fiorentini stessi avevano creato, affidando il governo del Comune a Gualtieri, per poi scoprire che questi non era affatto adatto e gestiva la res publica in modo dispotico e autoritario. Così, con un’insurrezione, fu cacciato nel luglio 1343.
Quello sul muro del palazzo fiorentino non era però un semplice affresco, tant’è che fu prontamente occultato (seppur temporaneamente) perché Guido di Bari e il suo seguito non lo vedessero. Quella pittura era un vero e proprio atto giuridico, che ostentatamente dichiarava e rendeva evidente la condanna e il bando di chi era colpito da un simile provvedimento. La cosiddetta «pittura infamante», cui Gherardo Ortalli dedicò un bellissimo studio ancora oggi fondamentale (e ripubblicato in edizione riveduta nel 2015 da Viella), è solo uno dei complessi e stratificati problemi che investono la pittura civica del medioevo comunale, cioè quel tipo di figurazioni che «mettono in immagine» le idee politiche e le propagandano alla comunità di cittadini. L’esempio certo più noto di questo tipo di figurazioni è il grande ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti nella Sala dei Nove nel Palazzo Pubblico di Siena, il cosiddetto Buongoverno (1338) in cui, con un linguaggio pittorico realistico, vengono visualizzati concetti astratti e idee complesse sulla forma di governo cittadino.
Per comprendere più a fondo gli intrecci che soggiacciono all’arte civica del medioevo toscano si può oggi leggere il libro di Klaus Krüger La politica dell’evidenza nel Trecento fiorentino Pittura e immaginario pubblico (pp. 111, 40 ill., euro 25,00), appena edito da Viella nella traduzione di Viviana Chilese. Lo storico dell’arte tedesco si concentra sul contesto della Firenze comunale perché lì prese avvio la stagione più gloriosa della pittura civica, grazie al più grande pittore dell’epoca: Giotto. Fu lui, infatti, che proprio nel Palazzo del Podestà, entro il 1332, diede un volto al Comune attraverso un’allegoria, con un procedimento simile, ma non identico, a quanto aveva già fatto agli Scrovegni di Padova. I perduti affreschi del Comune rubato e del Comune in Signoria suggellavano così un nuovo modo di esprimere le idee politiche del ceto governante e, allo stesso tempo, innescavano un accortissimo sistema di propaganda o, per utilizzare le parole di Krüger, una vera e propria «politica dell’evidenza».
Sono molteplici le vie che s’intersecano nel libro, come ad esempio il rapporto tra il valore estetico delle immagini e la necessità di produrre argomenti probanti attraverso il loro uso. Attraverso nove capitoli, Krüger scandaglia diversi aspetti della «politica dell’evidenza» e dei meccanismi messi in campo dai fiorentini per renderla efficace. Così, ad esempio, le vicende del 1343 offrono il caso perfetto per analizzare il funzionamento dell’affresco che l’Orcagna realizzò nel 1344-’45, in antico nel carcere delle Stinche e oggi nel museo di Palazzo Vecchio. Lì, infatti, si coagulano in un sistema simbolico-comunicativo di grande efficacia le diverse istanze che il Comune voleva fossero ben evidenti a chi fruiva quello spazio, mettendo uno a fianco all’altro il potere esecutivo (la milizia) e quello legislativo (Palazzo Vecchio) sotto la protezione di Sant’Anna che consegna i vessilli del Capitano del Popolo, della città e del Comune alla milizia dei cittadini. Con questo gesto, che unisce le componenti giuridiche del Comune e la simbologia protettiva della santa patrona, i committenti fermavano in immagine non soltanto l’evento storico della cacciata di Gualtieri VI, ma mettevano in figura il passaggio dalla tirannia alla riconquistata libertà di governo attraverso l’intervento dei poteri comunali. Krüger sottolinea come il realismo dell’affresco assuma «una funzione argomentativa di tipo simbolico». Si crea così un vero e proprio sistema visivo-concettuale, che dà concretezza all’ideologia, a idee astratte. È lo stesso processo di «trasformazione» visibile negli affreschi di Lorenzetti, dove l’aleatorietà del Bene comune (bonum communis, nel linguaggio giuridico del trecento) era fissata icasticamente nel canuto vegliardo.
Con questo libro Krüger si pone in un solco di studi ben preciso, nel quale va annoverato almeno Una lontana città che Chiara Frugoni pubblicò da Einaudi nel 1983 e dove è analizzato il complesso rapporto tra comunità, la civitas, e città, l’urbs. Una linea di ricerca poi proseguita negli esiti altissimi delle ricerche di Maria Monica Donato, che dell’arte civica nell’Italia comunale è stata una delle più acute studiose, e che a questi temi aveva dedicato la grande mostra fiorentina del 2013 Dal Giglio al David, co-curata con Daniela Parenti.
L’evidenza come principio cardine, motore primo di questo tipo di raffigurazioni, è ciò che Krüger tematizza con grande efficacia nel volume. Immagini che ebbero una parte non piccola nell’agire della società, nella sua definizione delle leggi e persino nel processo autointerpretativo. Una dimensione di potenza delle immagini che noi, oggi, fatichiamo a recuperare del tutto. Da alcuni punti di vista si è solo moltiplicata la quantità, perché i meccanismi sottesi al funzionamento di quelle immagini medioevali è pressappoco – e con qualche distinguo – il medesimo che ritroviamo in un grande manifesto pubblicitario. Così accadde quando, nell’aprile 1329, Colle di Val d’Elsa, dopo aver stipulato un contratto con Firenze per un’ingente fornitura di grano, consegnò le derrate agli emissari di Pisa dietro un compenso molto più lauto e vantaggioso di quello dei fiorentini. Il tradimento venne a galla. Come riporta Domenico Benzi nel manoscritto dello Specchio Umano (anche detto Libro del Biadaiolo, poiché registrava i prezzi di grano e biade a Firenze, dal 1320 al 1355), i fiorentini si mossero subito per condannare ufficialmente l’affronto, e fecero realizzare un pubblico affresco che ricordava l’accaduto. Il dipinto non ci è giunto, ma a tramandarlo è una miniatura all’interno dello Specchio Umano, cosicché possiamo avere un’idea di quello che, a tutti gli effetti, doveva funzionare come una sorta di ‘manifesto pubblicitario’. Poiché anche quella delle immagini trecentesche era un’evidenza tale che, come si legge nella cronaca che ricorda la visita dei colligiani a Firenze dopo i fatti del 1329, «ogni piccolo bambolino sanza domandare può intendere ciò che la tinta parete manifesta».