I raid statunitensi sono l’espressione dell’agenda che oggi passa per il governo di unità del premier al-Sarraj: legittimarlo eliminando l’Isis da Sirte è la strategia. Intorno resta un paese spaccato che al nuovo esecutivo di Tripoli non riconosce il necessario consenso, che si tratti di tribù, gheddafiani o semplici cittadini. Ne abbiamo parlato con Mustafa Fetouri, giornalista indipendente libico, vincitore nel 2010 del premio per la libertà di stampa intitolato a Samir Kassir.

A quattro giorni dall’inizio dei raid si parla già di una ricollocazione dell’Isis verso sud. Fuori da Sirte, ma non dal paese

L’esperienza degli ultimi due anni, in Siria e Iraq, ci dice che i bombardamenti contro postazioni Isis non sono in grado di sradicare lo Stato Islamico. Nel caso libico le forze militari locali possono eliminare grazie ai raid la presenza islamista nelle aree target. Ma non elimineranno l’intera minaccia perché l’agenda occidentale in Libia non ha come obiettivo il suo definitivo sradicamento, solo un suo contenimento. Tenerlo lontano dai confini e da certe zone sensibili. L’Isis sarà spinto verso sud e verso il deserto, dove sarà più libero di muoversi come succede con al Qaeda in Maghreb da almeno un decennio. Non sono perciò ottimista: l’Isis non finirà con i raid.

Viste le dure reazioni dei diversi attori libici all’intervento Usa, dalle tribù al parlamento di Tobruk, c’è da attendersi un ampliamento delle spaccature interne?

Le divisioni aumenteranno sia in termini geografici – tra est e ovest – sia in termini di attori politici. Anche se entrambi i governi, est e ovest, hanno legami chiari con soggetti occidentali (la Francia a Tobruk, gli Usa a Tripoli), i raid di Washington hanno l’obiettivo di rafforzare il governo di unità di al-Sarraj a scapito del generale Haftar e di Tobruk. Cosa preoccupa i libici è la natura dell’agenda: occidentale e non interna. Il governo di unità non persegue interessi locali, ma esterni, e questo inficia sulla sua credibilità. Dopo l’accordo firmato in Marocco a dicembre e già prima che al-Sarraj arrivasse a Tripoli a marzo, la percezione prevalente era di sfiducia nei confronti di al-Sarraj proprio nell’idea che si fosse guadagnato l’appoggio occidentale (anche italiano) per due ragioni: intensificare la lotta all’Isis e limitare l’afflusso di migranti.

Questo governo è troppo preoccupato da cosa vuole l’Occidente piuttosto che dai bisogni dei libici, costretti ad affrontare problemi sempre peggiori soprattutto nelle grandi città (carenza di energia elettrica e di contanti nelle banche, assenza di sicurezza, disoccupazione). Alla stessa gente di Sirte non piace l’idea di essere liberata dalla morsa Isis dalle milizie di Misurata, legate al governo di unità ma autonome: sono state abbastanza intelligenti da saltare sul carro di al-Sarraj proprio per godere di una copertura legale. Certi abusi saranno giustificati perché combattono Daesh.

In tale contesto qual è il ruolo delle tribù? L’alternativa politica che pare emergere è Saif Gheddafi

Fin dall’inizio Unione Europea, Stati Uniti e Onu hanno ignorato le tribù, una dimensione fondamentale del conflitto libico, buona parte del quale ha le sue radici nella struttura tribale della società. Le hanno ignorate mentre tentavano di trovare una soluzione: si sono rivolti a tutti, hanno parlato con gli islamisti e con i laici, hanno parlato persino con i gruppi criminali. Ora l’Occidente scopre di aver commesso due gravi errori, ignorando due elementi centrali: la dimensione tribale della società libica e i sostenitori dell’ex regime. Sono tanti, una maggioranza invisibile perché ancora spaventata dall’idea di mostrarsi, ma che rappresenta buona parte del paese dopo trent’anni di governo Gheddafi. Non a caso le tribù oggi pensano al figlio Saif.

Nei giorni precedenti, le città occidentali sono state teatro di manifestazioni contro le ingerenze straniere. Come legge il popolo l’intervento Usa?

Il popolo libico non ha mai approvato alcuna ingerenza straniera negli affari interni. Potrebbe sì accettare supporto militare straniero per combattere l’Isis, un intervento limitato nel tempo e nello spazio, ma non più di questo. Il paese è in crisi da cinque anni a causa di un intervento esterno sia politico che militare che ha impedito al popolo libico di cementarsi intorno ad una soluzione unica. Le manifestazioni che ci sono state, però, non sono state troppo partecipate, per lo più accese dagli islamisti che provano a usare politicamente la situazione per guadagnare credibilità. Per cui chi nel 2011 accolse l’intervento straniero perché serviva i propri scopi, ora denuncia la presenza francese nell’est della Libia a favore di Haftar. E ora contesta il fatto che l’intervento Usa sia arrivato via al Sarraj.