Esauritasi la martellante narrazione agiografica sulle virtù e i miracoli del Presidente Draghi propinataci dal coro mediatico di queste settimane, ecco ora la grande stampa osannare il capolavoro di equilibrio e gli accorti dosaggi sperimentati dal neonominato Presidente del Consiglio nella composizione del suo governo. Un ulteriore rincaro di lodi tessute alle virtù carismatiche del nuovo capo del governo al quale un Parlamento allo sbando e senza competenze avrebbe finalmente deciso di arrendersi. Un racconto che sconcerta soprattutto per il suo diabolico candore, per i retaggi ideologici che lo alimentano, per la fede riposta da giornali e salotti televisivi nelle capacità risolutrici del nuovo esecutivo, da tutti voluto per far uscire l’Italia dall’emergenza. Mi pare francamente troppo.

Cominciamo allora con il dire che il governo Draghi non è stato imposto dall’emergenza sanitaria. L’emergenza sanitaria già c’era. E c’era anche un governo che vi stava facendo fronte con risultati discutibili quanto si vuole, ma certamente migliori rispetto agli altri governi europei. La soluzione Draghi nasce in ambienti economici molto tempo prima. Già negli ultimi mesi del suo mandato alla Bce si registrano i primi endorsement. La crisi sanitaria non solo non c’entra nulla, ma ha anzi scombinato i piani di chi puntava a una rapida e sbrigativa investitura del Governo Draghi. Di qui il nervosismo delle destre, le manovre della grande impresa (culminata con l’ ascesa di Bonomi ai vertici di Confindustria), il varo dei nuovi assetti della stampa italiana (operazione Exor).

Di queste tendenze Renzi è stato un efficace recettore, ma anche un punto risolutivo di condensazione e di rottura. Trovandosi ad agire in Parlamento con una forza esigua, ma determinante, è stato in grado di travolgere equilibri politici e assetti governo aprendo la strada ad una soluzione da tempo auspicata dai poteri finanziari e economici. Uno schema di gioco non nuovo per il «rottamatore», chiamato, ancora una volta, ad agire da collante politico e stura del sistema. Esattamente come aveva fatto nel 2016 partorendo una riforma costituzionale sotto dettatura di una nota emanata dalla banca d’affari Jp Morgan (soluzione fortunatamente respinta dai cittadini italiani).

È questo lo spazio politico che Renzi si è in questi anni ritagliato. Fare oggi del senatore di Rignano e di Silvio Berlusconi gli artefici della sconfitta del populismo in Italia mi pare – a dir poco – azzardato, trattandosi di due populisti doc. Il populismo è il tratto caratterizzante della loro cultura politica. Così come lo è stato della loro azione di governo: una miscela esplosiva permeata di «unto del signore» (Berlusconi), «lanciafiamme» (Renzi) e presidenzialismo (entrambi).

Né vi è da stupirsi. Da tempo la migliore cultura costituzionalista europea (e anche americana) ci dice che populismo e tecnocrazia si alimentano a vicenda. E il caso italiano ne è una conferma quanto mai evidente da almeno trent’anni: nei primi anni novanta il populismo referendario (sorretto dall’ideologia del maggioritario) ha portato al governo Ciampi. La fine del governo Ciampi al berlusconismo. E così via. Fino al governo Monti e all’exploit del Movimento 5 stelle e della Lega. E non si tratta solo di un mero gioco di sponda. Potere tecnocratico e populismo sono sue fenomeni complementari e in gran parte coincidenti. Comune è la cultura di fondo che li alimenta e comuni sono anche gli obiettivi: la dissoluzione della rappresentanza democratica e la fine del primato della politica.

Il disorientamento della sinistra nasce esattamente da qui. Dal non essere stata capace ad affermare le ragioni della politica. Né tanto meno a disinnescare la spirale impostasi in questi anni tra reazione populista e potere tecnocratico, tra istinti sociali e razionalità economica. Ma non dobbiamo pensare alla sinistra come a una vittima sacrificale del nostro tempo. Un tempo così malvagio d’averla oggi costretta a condividere ruoli e responsabilità di governo con i peggiori ambienti della destra italiana.

Di queste tendenze la sinistra è stata vittima, ma anche carnefice. Basta scorrere quanto è avvenuto in questi anni: convinto appoggio a tutti i governi tecnici della storia repubblicana; esaltazione retorica della «democrazia decidente»; sostegno attivo ai processi di spoliazione dei poteri di tutte le assemblee politiche (dai Consigli comunali al Parlamento). Insomma la governabilità ad ogni costo. L’esito lo abbiamo oggi sotto i nostri occhi: una politica commissariata, la decomposizione dei partiti, la dissoluzione del sistema parlamentare. Un sistema la cui fisiologia dipende innanzitutto dal funzionamento del rapporto dialettico maggioranza-opposizione. Se questo viene meno viene meno il ruolo del Parlamento e non solo la sua funzione ispettiva e di controllo.