La più grande avventura mentale di sempre, La recherche è in realtà, più semplicemente, la storia di un corpo, quello di Marcel. Condannata a starsene rinchiusa dentro gli angusti spazi della scatola cranica, la memoria è viceversa distribuita in quantità più o meno eguali tra gli organi e le parti che ci compongono. La milza, il fegato, le trombe di Eustachio trattengono e rilasciano ricordi di continuo, pompano memoria dentro il cranio. È così che la specie si conserva, tiene traccia di sé. Le froge, le papille gustative – ha raccontato Proust prima che lo spiegassero in tanti – sprigionano passato dentro il presente che viviamo.

Non è un caso, d’altra parte, che Marcel Proust abbia dedicato tanta attenzione al concetto di abitudine, come ci ha fatto notare Patrizia Valduga nel suo prezioso Breviario proustiano. Una volta istruito sul da farsi, il corpo ripete, lasciandoci tempo e spazio per altro: l’abitudine è dunque una delega al corpo da parte della mente. Trasforma il corpo in uno stuolo di assistenti operosi; non importa se la lampadina in bagno è fulminata da giorni, il dito continuerà a pigiare l’interruttore perché è ciò che ricorda, perché è memoria trasformata in un gesto. «Viviamo (…) col nostro essere ridotto al minimo; la maggior parte delle nostre facoltà rimangono assopite, fidandosi dell’abitudine che sa cosa si deve fare e non ha bisogno di loro» (così Proust, nella traduzione di Giovanni Raboni).

Il nonno che sbuccia la mela
Il nuovo libro di Georgi Gospodinov, Tutti i nostri corpi Storie superbrevi (Voland, traduzione sempre complice di Giuseppe Dell’Agata, pp. 160, € 14,00), ha questa più o meno evidente radice proustiana. «Ci sono movimenti che risvegliano il passato. Sbuccio lentamente una mela con un coltellino tascabile (…), osservo come si arrotola la spirale della buccia, asciugo il succo di mela sulla lama. La mia mano ricorda la mano di mio padre, che ricorda quella di mio nonno. Non sono io, è la mano che ricorda. Non sono io, è mio nonno che sbuccia la mela».

Tutti i corpi del titolo sono collezionisti di tempo, il vero protagonista dei libri dell’autore di Fisica della malinconia. Incapaci come siamo di trattenerlo o averne davvero contezza, al tempo possiamo solo trovare contenitori e poi stoccarcelo dentro. È solo in quel modo, che possiamo consultarlo come fosse un archivio: gli oggetti, le case, i cibi, le strade, sono i fascicoli in cui cataloghiamo l’eternità. O i corpi, per l’appunto: come quelli che vede di fronte a sé, al risveglio dopo un’operazione chirurgica, il protagonista del testo che dà il titolo al volume. Sono tanti e di età differente, il più piccolo ha sette o otto anni, è in pantalocini e ha un ginocchio sbucciato. «Chi siete voi?», chiede il paziente. «Tutti i tuoi corpi», rispondono. «Non ci hai riconosciuti?».

Il protagonista li guarda, ed è così che finalmente può vedere il tempo della sua vita, ora che è confezionato in volumi. Una matrioska con un bambino in fondo alla fila rappresenta lo spazio atomico dell’infanzia, quello minimo dalla cui esplosione sprigionano le vite a venire. Non è un caso che il bambino sia l’ultimo, nel racconto, ad andare via dalla stanza, o meglio che sia l’ultimo a restare.

In ogni suo scritto, l’infanzia è la stella polare di Gospodinov, ma è in questo libro, per certi versi collaterale, che trova la sua visualizzazione poetica e stilistica. Il bambino come uomo nelle sue misure più ridotte, come racconto supebreve pronto a esplodere. Sono 113 i testi che compongono Tutti i nostri corpi, alcuni lunghi un paio di righe, altri poco più di una pagina: epifanie, freddure, epigrammi, mini dialoghi platonici (Aporie dell’età), assiomi («Non è strano che muoiano sempre gli altri, e noi mai?»). Gospodinov gioca con il genere del racconto breve, lo codifica e lo rivendica in una sorta di apologia della brevità posta a conclusione («il testo più lungo di tutto il libro») chiamando in causa tra, gli altri, Borges, Charms, Monterroso. A quest’ultimo dedica anche «Mattina (la più breve storia di Natale)» una riscrittura del più celebrato miniromanzo mai scritto: «Quando il contadino entrò nella stalla del bue e dell’asino, quelli già lo sapevano».

In poco più di centocinquanta pagine, lo scrittore bulgaro mette insieme una sorta di suo best of. I temi e i registri che nei libri più complessi (penso anche a Romanzo naturale) stanno dentro un organismo più vasto, vengono qui isolati nella pagina, anche graficamente, incorniciati dal bianco che li circonda. Vi si trovano la malinconia («Grammatica della malinconia»), l’apocalisse, intorno a cui ruota il precedente E tutto divenne luna (il cui incipit, fenomenale, è «La fine del mondo li sorprese dentro il museo della preistoria»), il gusto per il paradosso («Comunicazione»), l’umorismo («Il terrore di una correttrice di bozze per i refusi»), l’empatia, e il cameo di alcuni personaggi già incontrati in altri libri (tra cui Gaustìn, come ben rileva Dell’Agata nella Postfazione).

Taccuino per opere a venire
Il tutto, poi, va a comporre un libro che è al tempo stesso una raccolta di storie superbrevi e anche il taccuino in cui Gospodinov ha preso appunti per opere a venire, oppure il diario di una estrema solitudine compositiva (continui i riferimenti a una residenza in un monastero svizzero). Ma è prima di tutto il libro in cui Gospodinov mostra in maniera più esplicita – e programmatica – i materiali di cui si serve per il suo lavoro letterario. La sua apologia del frammento è una lucida dichiarazione di poetica formulata in un apparente paradosso: proprio questo apologeta della brevità ha il suo libro migliore in Fisica della malinconia, un volume di quasi 400 pagine.

E dunque quel paradosso si rivela niente altro se non il gesto del mago che fa passare tra gli spettatori le carte o il cappello prima di usarlo per il numero di lì a poco messo in scena. Guardate, dice, controllate voi stessi. Anche Fisica della malinconia, dice in qualche modo Gospodinov, è un volume sotto il segno del frammento: lì, tuttavia, giustapposti, testi brevi o brevissimi, illuminazioni, poesie messe sul rettilineo della prosa. Nulla di diverso, in fondo, da quelli raccolti in Tutti i nostri corpi: il frammento è la componente prima di ogni scrittura, e un testo più lungo è solo un collage di tasselli, una giustapposizione di parti − non c’è trucco e non c’è inganno.

Come il mago che si riprende carta e cappello, lasciando il pubblico sbalordito, così Gospodinov a volte giustappone in un unico testo a cui dà il nome di romanzo frammenti minimi che altrove aveva isolato e esposto, e quanto ne scaturisce è strabiliante, inspiegabile.