Chiunque pensi che la narrativa di Nadine Gordimer abbia fatto il suo tempo nel momento in cui il Sudafrica ha abbattuto i muri dell’apartheid e Nelson Mandela è diventato presidente, non ha che da leggere i Racconti di una vita appena pubblicati da Feltrinelli per ricredersi (traduzione di Grazia Gatti, pp. 305, euro 19,00). Racconti di una vita attraverso il racconto di tante vite: una biografia letteraria che ripercorre le tappe della tormentata e vitale relazione della scrittrice con il paese nel quale è nata, attraverso il genere che, statutariamente, storicizza il presente. «Gli scrittori di racconti vedono alla luce del lampo; la loro è l’arte dell’unica cosa della quale si può essere certi – il momento presente».

La sincronia emerge lapidaria in una storia non inclusa nell’edizione italiana, intitolata The Ultimate Safari, nella quale un’orfana di undici anni racconta la fuga disperata dal Mozambico in guerra attraverso una riserva naturale, meta di safari fotografici per ricchi europei. In esergo il testo riporta un annuncio pubblicitario che parla da sé: «L’avventura africana prosegue. Puoi farla anche tu. Un safari straordinario con guide esperte dell’Africa». Così l’Observer del 27 Novembre 1988. Al netto dell’esotismo picaresco à la Rider Haggard, di quello intimistico à la Conrad, o di quello eroico à la Hemingway, l’avventura africana – intesa nel senso di un futuro immaginabile tanto per il Sudafrica quanto per il continente africano nel suo complesso – può riassumersi in questo volume, che celebra sessant’anni di una carriera valsa a Nadine Gordimer il Booker Prize nel 1974 e il Nobel nel 1991.
Per Gordimer il raggio d’azione della letteratura è la terra, «non in senso cosmico ma in quello naturale di terra per le piante», e scrivere è una forma di «giardinaggio». Non sorprende, dunque, che a J. M. Coetzee – anche lui sudafricano, anche lui vincitore di un Nobel per la letteratura – Gordimer abbia rimproverato tanto la visionarietà quanto il trasferimento in Australia. Come attività di gardening, la letteratura necessita di stanzialità, oltre che di una porzione di «terra» da curare, nonché di strenua resistenza alla tentazione dell’allegoria, colpevole di derealizzare il mondo liberando «i polmoni del lettore dalla materia transeunte e riempiendoli di un soffio di trascendenza nel quale l’uomo diventa quel noioso di Ognuno»: così scrive Nadine Gordimer a proposito di La vita e il tempo di Michael K di Coetzee.

Ecco perché il racconto è il genere che rappresenta la sfida maggiore per una scrittrice come lei. Vivendo della tensione tra realtà e simbolo, esperienza e illuminazione, il racconto minaccia di erodere la vocazione squisitamente sublunare e materica della sua scrittura. Ma il rischio è calcolato e Nadine Gordimer lo affronta da sempre con immutato rigore stilistico e intellettuale.

Semmai, la vera minaccia che incombe sullo scrittore sudafricano di short stories è che la frammentazione sociale istituzionalizzata riduca drasticamente le dimensioni del giardino a sua disposizione, rendendo la linea del colore e della classe un limite invalicabile.

Ben sapendo che «la sua coscienza ha inevitabilmente la stessa tinta della sua faccia», Gordimer riesce nondimeno a parlare con tante voci e a immergersi in tante sensibilità diverse, dando vita a un caleidoscopio di personaggi che si elevano al rango di tipi umani, senza perdere nulla della loro carnosa, e spesso carnale, individualità.
Nelle storie degli anni cinquanta e sessanta la nota dominante è la goffa inautenticità che caratterizza i rapporti interrazziali, a prescidere dalle buone intenzioni delle persone. «I dilettanti» è un mesto aneddoto su una messa in scena trasformata in farsa nel teatrino arronzato di una squallida location suburbana di Johannesburg, dove una compagnia di attori bianchi si illude di poter proporre al pubblico di subproletari neri una commedia di Oscar Wilde. «E quale sarebbe la nuova era?» racconta la solidarietà dei bianchi, percepita dai non bianchi come mera strategia autoassolutoria, dalla prospettiva di un meticcio disgustato dalla filantropia femminile. Analogamente, «Da non pubblicare» attacca la malafede della pedagogia coloniale attraverso la corrosiva parabola di un ragazzo talentuoso, la cui emancipazione culturale dovrebbe riscattare il destino di tutti i sudafricani neri impossibilitati a elevarsi.

Altri racconti si concentrano sul corpo come luogo di resistenza passiva alle tassonomie razziali e alla giurisdizione dei poteri dominanti. «Tre metri di terra» – che anticipa l’universo tragico del romanzo Il conservatore – è il dramma goticheggiante della sparizione del cadavere di un clandestino, che scompagina la tranquilla esistenza rurale di una coppia bianca progressista, rivendicando il diritto a una terra che sembra sottrarsi all’occupazione dei neri persino nella morte.

«Un odore di morte e di fiori» racconta l’iniziazione politica nei termini di una trasgressiva iniziazione sessuale, seguendo, con divertita empatia, il percorso di un’adolescente bianca che si ritrova a bere e ballare una sera con un ragazzo nero, al compound industriale vietato ai bianchi, dove il gruppo di attivisti ai quali la ragazza si è unita è atteso da una pattuglia di polizia.

Dagli anni settanta i racconti allargano il raggio dell’immaginario geografico, disegnando un’etnografia del soggetto africano nomade, legata a forme delocalizzate di lavoro e di svago e all’avvento delle nuove tecnologie, così come ai flussi di profughi e rifugiati. Questa svolta narrativa getta una luce ancor più straniante sul sistema dell’apartheid e sulla natura primordiale dell’ideologia che lo sostiene, rispetto alla quale lo sguardo della scrittrice si fa più impietoso e distaccato. «Casa aperta» è una feroce vignetta sul gioco delle parti che si attiva in contesti di finta uguaglianza, a uso dei visitatori internazionali. Al centro della scena, un’anziana signora bianca, orgogliosa delle proprie amicizie interrazziali, un avvocato nero che vende attrezzature per le miniere di diamanti, approfittando dello stato di polizia per eliminare la concorrenza, e un giornalista americano in cerca del «vero Sudafrica», che si accontenta della recita che gli viene propinata senza fare ulteriori domande.

«I compagni di Livingstone» riscrive la vicenda dell’esploratore che ha scoperto le cascate Vittoria in forma di getaway, riannodando la trama che lega la missione civilizzatrice vittoriana alla nuova colonizzazione imposta dal turismo di massa. «Un incontro nello spazio» riguarda la genesi della immaginazione diasporica in un adolescente sudafricano in vacanza a Nizza che, grazie a un ragazzino americano un po’ mitomane, scopre nella fotografia la possibilità di allargare gli orizzonti della conoscenza ben oltre gli steccati delle umilianti topografie nazionali.
Nei racconti del nuovo millennio la scrittura di Nadine Gordimer torna a riflettere, con toni più disforici che in passato, sull’incerto statuto dell’identità sudafricana e sul deserto sociale e esistenziale emerso dall’abbattimento del racial divide. Il Sudafrica diventa una terra desolata nella quale neri sempre più impoveriti e bianchi sempre più imbarazzati appaiono congelati nei rispettivi destini, proprio perché sono liberi di mescolarsi.

naspettatamente, ma forse neanche troppo, Racconti di una vita si chiude sul registro apocalittico. In «La Seconda Venuta» un Gesù in «jeans ruvidi», con «i segni delle ferite cicatrizzati sotto la camicia», torna a Gerusalemme solo per scoprire che «il mare è morto» e «nessun pesce può ricominciare l’evoluzione, diventare umano, su uno dei pianeti dei sei giorni della Creazione». E finalmente, dopo una vita spesa all’insegna dell’ottimismo della volontà, Nadine Gordimer arriva a concedersi un liberatorio momento di abbandono.