Per una bizzarra vicinanza di date, l’anniversario della nascita del primo stato socialista al mondo e quello dell’atto iconoclastico per eccellenza che, da 25 anni, raffigura la “crisi dell’Impero sovietico”, sul calendario quasi si toccano. Il 7 novembre 1917 operai, soldati e marinai davano l’assalto al Palazzo d’Inverno e nasceva in Russia il primo governo operaio e contadino al mondo. Il 9 novembre 1989 l’abbattimento del muro di Berlino voleva simboleggiare il via libera alla vittoria irreversibile «della democrazia sulla dittatura»: sull’abbrivio di perestrojka e glasnost, di lì a due anni, con la fine dell’Urss, il crepaccio apertosi 97 anni fa e così insidioso per il mondo capitalista, si sarebbe richiuso.

Dunque, alle celebrazioni per questo 25° anniversario non poteva mancare colui che dette la spallata finale più poderosa a quel muro berlinese e che così brillantemente (dichiarato «uomo dell’anno» da Time nel 1987 e 1989) fece da ponte tra le due sponde del crepaccio, l’ex primo e ultimo presidente dell’ex Unione sovietica, Mikhail Gorbaciov.

Ospite d’onore alle celebrazioni nella capitale tedesca, Mikhail Sergeevic ha inaugurato ieri la nuova mostra allestita nel famoso checkpoint «Charlie» (parte dei ricavati dalla vendita dei biglietti finirà nelle casse del «Forum per la nuova politica», che porta il suo nome) e ha partecipato, insieme ad altri ex esponenti politici europei, al simposio «25 anni dopo la caduta del muro di Berlino – nuove crisi, nuovi dubbi, nuovi muri».

Intervistato da varie agenzie alla vigilia della partenza per la Germania, Gorbaciov aveva dichiarato a RIA Novosti: «Abbiamo gettato al vento le chance che si erano aperte con la fine della guerra fredda. Tutto era iniziato ottimamente; a qualcuno però non piaceva». A Interfax, il personaggio tutt’oggi censurato da molti suoi compatrioti quale affossatore dell’Unione sovietica e beniamino di altri, «per la sua audacia riformatrice», aveva detto: «Coglierò l’occasione del 25° della distruzione del muro di Berlino, perché non ci siano più muri, non solo di pietra, ma anche morali e universali. Solleverò questo argomento anche con Angela Merkel. Sono fermamente convinto che il problema dell’Ucraina sia solo un pretesto cui gli USA si appigliano. La Russia ha avviato nuovi rapporti, ha creato nuove strutture di cooperazione. E tutto sarebbe andato bene, ma negli Stati uniti non a tutti è piaciuto. Essi hanno altri piani, hanno bisogno di una situazione diversa che permetta loro di insinuarsi ovunque. Nei forum e nelle conversazioni con gli esponenti pubblici prenderò una ferma posizione di difesa della Russia e, quindi, del suo presidente Vladimir Putin. Sono assolutamente convinto che Putin, meglio di chiunque, difenda oggi gli interessi della Russia». Russia, ancora ieri accusata dalla Nato di ammassare uomini e mezzi al confine con l’Ucraina e addirittura – senza peraltro che siano state addotte prove – di averne oltrepassato la frontiera.

Intanto ieri, mentre a Berlino si prepara per domani la festa della caduta del Muro e a Mosca si celebrava, in forma ibrida, la data del 7 novembre – non si ricorda la rivoluzione del ’17, ma la famosa parata del 7 novembre del 1941, allorché quasi 30.000 soldati dalla Piazza Rossa marciarono direttamente al fronte, alla periferia di Mosca – nel Donbass si sono registrate nuove massicce operazioni di guerra. Dopo i tre civili morti e i 15 feriti di giovedì per le cannonate di Kiev, nella notte successiva forti colonne corazzate governative si erano mosse in direzione di Donetsk e, ancora una volta, sotto i bombardamenti sono finite scuole, asili, convitti, mercati, fermate degli autobus e si sono avuti ancora altri feriti. Secondo il vice premier della Repubblica di Donetsk Andrej Purghìn, le forze armate ucraine hanno iniziato un’operazione su vasta scala che ha costretto le milizie alla difensiva. Sempre ieri si sono svolti i funerali dei due bambini morti sotto le bombe che mercoledì scorso erano cadute sul campo di gioco della scuola n. 63 a Donetsk. La vice segretaria delle Nazioni unite Valerie Amos si è detta «estremamente preoccupata per il bombardamento della scuola», condannato anche, questa volta, dall’ineffabile portavoce del Dipartimento di Stato Jen Psaki.