Con la mostra della Frick Collection di New York (conclusasi il 20 gennaio scorso), e relativo catalogo – ma si tratta in realtà di una vera e propria, monumentale, monografia –, Alvar González-Palacios tira le fila di una vita di studi intorno a Luigi Valadier, il più grande argentiere del Settecento italiano e forse europeo. Argentiere? Valadier fu molto di più: fonditore di bronzi, disegnatore, ebanista (forse), lapicida, restauratore di pezzi antichi, e impresario di scuola moderna, che impiegava nella sua bottega romana in via del Babuino dai settanta agli ottanta giovani specializzati, rispondenti a un principio di lavoro integrato, che veniva incontro alle richieste ‘universali’ di una committenza di altissimo rango: oltre al papa, le grandi famiglie aristocratiche romane (dai Borghese ai Colonna ai Chigi, dagli Odescalchi agli Sforza Cesarini ai Giustiniani) ma anche nobili di varia provenienza europea, di passaggio o di stanza in città, come il Balì de Breteuil, francese, ambasciatore di Malta, squisito arbiter elegantiae del secolo.
Dettaglio travolgente in copertina
A cominciare dal 1975, con un saggio (dedicato anche al figlio Giuseppe) in cui già rilevava l’ascendente piranesiano, González si è dedicato a tappe, fra il molto altro, a ridare figura a Luigi Valadier, con il calore letterario che gli è proprio, in base al quale, come nessuno nel suo campo di studi, riesce ad animare le carte d’archivio ossessivamente compulsate, a far parlare le filze polverose dei dati inventariali, insomma, secondo l’antica lezione di Huizinga, a ‘immaginare’ la Storia. L’impresa Valadier si può dire compiuta con l’iniziativa newyorkese, fortemente voluta da Xavier F. Salomon, vicedirettore della Frick, il quale firma l’introduzione al volume, magnifico, proprio nel senso della Magnificenza piranesiana, per cura editoriale e qualità dell’impaginato (Luigi Valadier, pp. 544, dollari 99,95, sterline 79,95). Da sottolineare il supporto decisivo di Roberto Valeriani, collaboratore storico e angelo custode di González-Palacios.
Travolgente, in copertina, il dettaglio dell’Erma di Bacco, opera in bronzo e alabastro a rosa (raro marmo colorato), della Galleria Borghese. Sulla base di un documento del 1773, Palacios rivelò, molti anni orsono, l’identità dell’autore, Luigi Valadier, ma ha sempre lasciato un interrogativo sull’autografia della stupenda testa cinta dal serto d’edera, che colpì (se effettivamente a essa si indirizzano certe sue parole) il giovane Canova, il quale la riferì a «uno scultore moderno francese che è in Polonia», non dunque il nostro Luigi, mai stato in Polonia, ma forse André-Jean Lebrun. Senza escludere in via definitiva che lo scultore possa essere stato, invece, proprio Valadier, González afferma che la fusione, accertata di Valadier, «era quanto di più moderno fosse allora dato vedere a Roma persino agli occhi di un Canova che non era ancora il Canova che di lì a poco divenne». Anche per il fusto di alabastro, problemi di lettura: «Un pezzo antico totalmente riscolpito o piuttosto la creazione di uno dei lapicidi attivi per il principe» Marcantonio Borghese? Insomma, ci troviamo di fronte a una delle più insigni fra le tante stimolanti case histories che dicono la complessità del processo operativo, dalla prima idea alla messa in arredo, in una grande bottega di argentieri del Settecento come quella di Luigi Valadier. Una complessità che rende assai arduo discernere la fisionomia stilistica del capo bottega, il quale risulta molto simile, in definitiva, a un direttore d’orchestra, il cui genio è nel ‘tocco’ e nell’‘amalgama’. Quando si parla di arti decorative, non ci si pone mai abbastanza il problema di metodo implicito nel fatto che, per le ragioni suddette, si tratta di maestri per lo più ipotetici, ‘spettrali’, la cui ricostruzione stilistica comporta, in generale, ben più fatica e rottura di capo rispetto ai rappresentanti delle arti «maggiori». Chi conosce Palacios, chi ha almeno sfiorato il suo modo di lavorare, sa cosa significa tutta questa fatica, e sa di conseguenza valutare la forza magica insita nella sua capacità di spurgarla, di trasferirla sulla pagina con nitore, leggerezza, agudeza.
L’Erma Borghese rappresenta l’aspetto virile, neoclassico, di un artista che ha molte frecce nel suo arco. Di famiglia francese (il padre Andrea, capostipite della bottega, era originario di Aramont in Linguadoca e venne nel 1720 a Roma), Luigi Valadier, nato qui da noi nel 1726, non dimentica il suo ascendente, e sperimenta a più riprese, a un livello di qualità altissimo, il registro del capriccio rococò, del quale trova la vera definizione durante il soggiorno di perfezionamento a Parigi (1754), quando, probabilmente, venne in contatto con i sensibilissimi trionfi di volute e cartocci dei Germain, orafi del re: Thomas, il più geniale, fra i grandi protagonisti del gusto rocaille, si era formato nel tardo barocco romano, lavorando al sontuoso cantiere dell’Altare di Sant’Ignazio nella chiesa del Gesù, ed era morto nel 1748, lasciando la manifattura al figlio Thomas François-Germain, coetaneo esatto di Luigi Valadier. González non manca di sottolineare l’importanza di questo nesso nell’avventura di Monsù Luigi, ma sembra più interessato alla sua adesione, sfuggente quanto inoppugnabile, al mondo di Piranesi.
Interessato? Piuttosto, letteralmente stregato. Se si è avuta la fortuna di sfogliare insieme a Alvar, mentre il tramonto romano incendia le finestre, le Diverse maniere d’adornare i cammini, si capisce come quello piranesiano costituisca un terreno a parte nella sua vita di studioso, dove le questioni di filologia e persino di gusto sembrano lasciare il campo a un demone non socratico. Quando, a proposito dei desers di Luigi Valadier (deser: centrotavola ‘monumentale’ diffusosi nell’Europa dell’alta nobiltà verso metà Settecento), González si chiede da dove egli abbia potuto attingere per concepire creazioni talmente fantastiche, e suggerisce una delle incisioni «più grandiose» fra Le Antichità Romane di Piranesi, la «spina del Circo Massimo come appariva alla sua oscura immaginazione», è una specie di divinazione che sta realizzando, qualcosa che sembra sconfinare dall’ordinario della ricerca storico-artistica. Immediatamente dopo precisa con nettezza il reagente stilistico di Valadier: «schiarisce questa raffigurazione toccandola di oro e colore, discostandosi dalle gradazioni dei neri piranesiani».
In omaggio a Hugh Honour
I desers, veri e propri teatri in miniatura dell’Antico, danno modo a Valadier di sfoggiare la sua passione archeologica attraverso riproduzioni in scala di templi, archi, esedre, colonne, sarcofagi romani. Ricchissimo il repertorio dei materiali (predilezione, i marmi mischi), la cui varietà e preziosità trovano compensazione nell’accortezza distributiva, nel comporre cromatico, che danno tutta la misura del consenso dell’artista al verbo neoclassico. Un altro campo di applicazione dell’amore per l’Antico è in Valadier la riduzione in bronzo di statue classiche, tradizione di origine rinascimentale rilanciata nel Settecento, soprattutto a Roma, da un piccolo gruppo di metallari capeggiato dal nostro artefice, gruppo che, già ‘schedato’ dall’ineludibile biografo degli argentieri romani Costantino Bulgari, «fu messo in valore da Hugh Honour agli inizi degli anni Settanta del secolo trascorso – scrive González, in omaggio –, con una finezza che non è stata superata da alcuno». González è particolarmente efficace nel far capire come le riproduzioni di Luigi Valadier (ma anche del figlio Giuseppe), misteriosamente mai firmate, implichino, sull’esempio di Piranesi, un rapporto attivo e personale con la scultura antica: il Galata morente, il Sileno Borghese, l’Antinoo del Belvedere, tutti proprietà del duca di Northumberland, rappresentano un vertice in questo genere e dicono come la fusione e la patinatura si possano elevare da tecnica a poesia. Oppure, ritornando all’Erma Borghese, «una patina verdina con schizzetti dorati» finge «un’antica doratura nella corona di foglie», ma non si tratta tanto, avverte Palacios, di una falsificazione dell’Antico, quanto «del poetico desiderio di evocarlo ad arte attraverso una profonda conoscenza sia tecnica sia formale dei modelli classici». Aspetti che nella monografia possono essere apprezzati da vicino per via di meravigliosi dettagli a tutta pagina.
Formatosi nella tradizione del barocchetto romano – vuol dire un addolcimento, dagli effetti squisitamente pittorici, della vigoria lineare barocca –, l’eclettico Valadier riserva di solito a questo stile, a causa di una committenza meno propensa alle novità, la produzione sacra, il cui capolavoro è l’altare della Cattedrale di Monreale, dove si immagina possa aver subìto l’influenza di Filippo della Valle, lo scultore suo suocero. González non nasconde troppo bene di preferire a quel lavoro gli sfarzosi lampadari d’argento di Santiago di Compostela, «quanto di più rococò si sia fatto nel campo degli argenti romani». Un altro magnete per lo studioso è la produzione grafica di Valadier, campo in cui, per evidenti ragioni, si esprime più direttamente la sua personalità: González non si stanca di ossessionarsi, anche per ragioni attributive, sulle linee guizzanti e crepitanti dei disegni di mobili e oggetti, per i quali pone a modello, di nuovo, Piranesi, nella forma «decisamente rococò» degli esordi veneziani.
Me la ricordo bene la visita alla mostra di Luigi Valadier, organizzata da González-Palacios a Villa Medici nel 1997, tre anni dopo quella del Louvre, sempre a sua firma. Rimasi particolarmente colpito dal grande cammeo di Augusto (uno dei cammei della collezione papale), che indica un’altra specialità dell’orafo romano-francese, il restauro e adornamento dei pezzi antichi. Anche qui Piranesi detta legge, avverte Palacios, con il principio che l’intervento debba mascherare integralmente il confine fra antico e moderno, «o per dirlo con le parole di Valadier, come se mai nulla fosse stato accomodato». La parte decorativa comporta a sua volta l’adattamento di frammenti antichi, realizzato «con un estro fiorito e talvolta ricercato, quasi da gioielliere». Nella mostra di Villa Medici questa che González definisce «preziosità neoalessandrina» se la batteva con la profusione di oro: all’uscita l’oro rimaneva negli occhi come un liquido oftalmico e si spandeva sulla veduta dell’Urbe… Del resto parliamo dell’autore degli incredibili ornati metallici di quel capolavoro di decorazione ‘romana’ che è il Salone d’Oro di Palazzo Chigi, realizzato nel 1764.
«Che caso terribile, Mr Valadier si è buttato a fiume»: con espediente romanzesco, González pone la secca testimonianza dello scultore Vincenzo Pacetti, amico e socio, come incipit del suo viaggio nella vita e nell’opera di Luigi Valadier. Comincia dalla fine, dal suicidio al Tevere, verso la Marmorata, del 15 settembre 1785, non ancora sessantenne. Difficoltà legate alla fusione del campanone di San Pietro, a lui affidata, o, più probabilmente, alla mancata riscossione di un enorme credito? Qui González offre un breve spaccato di storia sociale dell’arte rappresentando come nel Settecento anche le botteghe meglio avviate rischiassero spesso il tracollo a causa dell’incertezza dei fattori economici, sia generali che particolari. Fatto sta che all’acme della sua carriera Luigi Valadier è preso da mania, ha il crollo nervoso, inspiegabile ma forse non tanto per chi abbia letto Orafi e argentieri di Hugh Honour, il gran libro del 1971 (edizione italiana, Mondadori ’72), dove le vite di codesta fauna umana sentono abbastanza spesso di Saturno, perlopiù in relazione ai soldi. L’oro di Valadier si tinge dunque di nero, ma noi preferiamo restare sull’oro, con Alvar González-Palacios.