Sei settimane dopo il voto che lo aveva visto sconfitto, Donald Trump chiese a tre agenzie federali di sequestrare le macchinette contavoti di alcuni stati-chiave, affermando senza alcuna prova l’esistenza di brogli. Lo chiese per primo al Dipartimento di giustizia – ma il procuratore generale Barr rifiutò e poi finì per dimettersi. Allora provò con il Dipartimento della difesa – i suoi consiglieri approntarono una bozza di ordine presidenziale, ma coinvolgere il Pentagono sembrò troppo persino a lui. Infine si rivolse alla Dipartimento della sicurezza interna, fece preparare un’altra bozza di ordine presidenziale e fece telefonare al suo avvocato Rudy Giuliani – il viceministro della Homeland Security rispose di non avere il potere di farlo.

VA IN PRIMA PAGINA negli Stati uniti l’ultima tremenda puntata del colpo di stato alla Donald, il racconto di un pasticcio ogni giorno più immondo che narra le convulsioni finali della Casa bianca di Trump. Il New York Times cita tre «persone con conoscenza diretta» ma è certo che, oltre ai racconti, anche qualche pezzo di carta è spuntato dalle casse di documenti dell’amministrazione Trump consegnati alla Commissione d’inchiesta sull’assalto al Campidoglio. C’è voluta una sentenza della Corte suprema per smuoverle dall’archivio di stato, che per legge custodisce ogni pezzo di carta passato dallo Studio ovale. E ora che arrivano, la Cnn scopre che molti dei documenti sono stati strappati.

LA COMMISSIONE Campidoglio in settimana aveva già scoperto intensi carteggi nei quali il cerchio magico dell’ex presidente chiedeva ad alcuni parlamenti statali di ignorare il voto e nominare i loro grandi elettori tra i seguaci di Donald. Fallita l’ipotesi di sequestrare i seggi elettronici, infatti, l’idea successiva era quella di inviare grandi elettori “alternativi” da posti come Georgia, Pennsylvania e Michigan – grandi elettori fake, roba che il voto per il Quirinale sembra la prima comunione. Naufragata anche questa, si passò alla successiva: convincere il vicepresidente Mike Pence a non certificare il voto – il capo dello staff di Pence, Mark Short, ha testimoniato l’altro giorno alla commissione d’inchiesta, ultimo di una fila ormai arrivata alla portavoce di Trump, Kayleigh McEnany. La fine è nota: Pence rifiutò e il 6 gennaio partì l’assalto al Campidoglio.

Sembrerebbero giorni difficili per Donald Trump. Che invece rilancia, e sabato sera in un comizio in Texas ha attaccato i procuratori che indagano su di lui, «tre procuratori malvagi, gente orribile, mentalmente malati, razzisti» – i procuratori in questione sono neri, tutti e tre. La frase successiva («Se in Georgia faranno qualcosa di sbagliato o illegale, voi farete la più grande protesta mai vista ad Atlanta») ha convinto la procuratrice locale Fani Willis a precipitarsi dal Fbi per chiedere protezione per sé, per l’edificio dove lavora il suo staff e per l’aula del grand jury. Normale, se il tuo avversario è la famiglia Gambino. Un po’ meno se a correrti dietro è Donald Trump. Willis indaga sul voto in Georgia, il caso nato dall’infame telefonata di Trump al segretario di stato Brad Raffensperger («Trovami 11.780 voti, Brad»). Gli altri due “malati” e “razzisti” sono Alvin Bragg e Letitia James, che a New York indagano sull’impero che (poco) possiede e le tasse che (non) paga.

Il procuratore che chiede protezione è solo un dettaglio della guerra di king Donald alle strutture della democrazia americana – che già non stavano benissimo, ma qui siamo a un altro livello. Dopo il ridisegno malizioso dei collegi elettorali e le leggi anti-voto negli stati repubblicani, è il momento dell’assalto alla carica di segretario di stato – carica poco conosciuta che però sovrintende al voto. Sono 21 i candidati segretari di stato che hanno pubblicamente negato la vittoria di Joe Biden, in 18 stati diversi. Gente che vuole sorvegliare la prossima elezione ma rifiuta il risultato di quella precedente. «Come eleggere un piromane a capo dei vigili del fuoco», ha detto Johanna Lydgate dello States United Action, il gruppo non-partisan che monitora il voto.

NELLO STESSO comizio in Texas, Trump ha dichiarato che se tornasse alla Casa bianca «tratterei equamente quella gente del 6 gennaio, e se vuol dire concedere la grazia, la concederei». Un altro pompiere che gioca coi fiammiferi.