Silenzio. Nessun commento ufficiale israeliano al colpo di stato in Sudan. Almeno fino a ieri sera. Dietro le quinte, comunque, i vertici politici e militari israeliani seguono con attenzione, e qualche timore, gli sviluppi da un paese arabo con il quale lo Stato ebraico, appena un anno fa, ha normalizzato le relazioni. Il golpe è giunto mentre Tel Aviv intensifica gli sforzi per stringere legami più forti con Khartoum con risultati modesti. «La sua situazione interna ha messo alla prova la capacità del Sudan di far progredire i legami con Israele come hanno fatto gli altri paesi», ha detto una fonte diplomatica israeliana al quotidiano Haaretz riferendosi agli Accordi di Abramo tra Israele e quattro paesi arabi.

Il Sudan è un paese strategico per gli interessi israeliani, come Emirati e Bahrain. Se questi due paesi hanno portato Israele sulle rive del Golfo, proprio di fronte al nemico iraniano, il Sudan è centrale per il controllo dell’area tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano. Le ultime settimane hanno visto ripetuti contatti tra i funzionari sudanesi e le loro controparti israeliane. Malgrado ciò, Khartoum questo mese ha contestato l’assegnazione a Israele dello status di osservatore all’Unione Africana. Quindi a Tel Aviv si pongono interrogativi sulle mosse del generale Abdel Fattah al Burhan, l’uomo dietro al golpe. In apparenza Al Burhan resta favorevole alla normalizzazione con Israele. I rapporti con lo Stato ebraico sono la chiave che il Sudan ha a disposizione per garantirsi possibili finanziamenti statunitensi oltre a quelli internazionali. Il comandante militare sudanese lo sa e lo scorso gennaio ha incontrato a Khartoum il ministro dell’intelligence israeliana, Eli Cohen, dichiarando il suo appoggio alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Avrebbe però nascosto agli americani la decisione di andare al colpo di stato. Ma è da provare, perché a sostenerlo è l’ambiguo inviato speciale degli Stati Uniti Jeffrey Feltman – già spargitore di guai tra Libano e Siria – che ieri ha riferito dell’allarme degli Usa per gli ultimi sviluppi in Sudan.

Segnali che turbano gli israeliani. Anche perché a parte le intese sulla sicurezza, i progetti agricoli e tecnologici tra Israele e Sudan non sono stati attuati come previsto e l’accordo di un anno fa attende ancora la ratifica dal parlamento sudanese. L’opinione pubblica sudanese è spaccata sui rapporti con gli israeliani, pro e contro gli accordi di Abramo. E i militari potrebbero congelare la questione ritenendo la ratifica non urgente poiché la normalizzazione non ha portato risultati tangibili al Sudan che pure in politica estera si è allontanato dall’Iran per abbracciare Usa, Israele e i loro alleati arabi. L’economia sudanese è stata particolarmente colpita dal Covid e si è contratta del 3,6% nel 2020 e il Fondo monetario internazionale prevede che crescerà quest’anno dello 0,9% e del 3,5% nel 2022. Livelli che non permetteranno al Sudan di creare lavoro sufficiente per i giovani e di contenere la povertà. Condizioni che, non si può escludere, potrebbero spingere Al Burhan e gli altri capi militari a frenare l’apertura all’Occidente e a Israele se nel frattempo non otterranno gli aiuti per il loro paese.

Sul Sudan non ci sono in queste ore solo gli occhi di Israele e Stati uniti. L’Egitto, ad esempio, ha stretto i rapporti con Khartoum dopo la caduta nel 2019 del leader sudanese Omar al Bashir alleato dei Fratelli musulmani nemici del regime di Abdel Fattah el Sisi. E ha investito non poche risorse nell’assistenza alle forze armate di Khartoum. Si aspetta perciò che il generale Al Burhan ricambi il favore adottando una posizione più rigida e più fedele a quella del Cairo nella pericolosa controversia con l’Etiopia che si prepara, nei prossimi mesi, a proseguire il riempimento della diga Gerd sul Nilo. Un progetto che Addis Abeba ritiene fondamentale per lo sviluppo dell’economia etiope e che il Cairo invece considera una minaccia alla sua esistenza perché ridurrà nei prossimi anni la quota di acqua destinata all’Egitto. Khartoum ha appoggiato solo fino ad un certo punto le ragioni dei «fratelli egiziani», pare su indicazione del premier deposto Abdalla Hamdok contrario a una rottura traumatica con l’Etiopia. Adesso con il potere tutto nelle mani di Abdel Fattah al Burhan le cose potrebbero prendere un’altra piega.