Un compositore è uno che scrive musica sua. Pensa una successione di suoni e la trasforma in una successione di segni su un pentagramma. A volte in tempi recenti fa a meno del pentagramma e riempie di segni e persino disegni un foglio o più fogli. A volte non adopera segno alcuno né scrittura alcuna: suona in uno strumento direttamente i suoni che ha pensato. Quando si dice compositore viene in mente uno che fa una musica sua e basta.

Nel senso che la produce lui e non esisteva prima in nessuna forma. Invece fin da tempi antichissimi ci sono compositori di ogni livello, da modesti a eccelsi, che fanno musica, anzi compongono, utilizzando, insieme a parti più o meno ampie di proprie sequenze sonore, altre musiche, di altri autori o anonimi, melodie, canti, campi armonici, tracce che sembravano perse e invece sono state documentate e catalogate. Heiner Goebbels è un esempio tra i migliori, nel senso dei migliori risultati artistici raggiunti, di questo modo di comporre.

Di Goebbels si sta parlando molto in questi giorni in Italia. Da poco a Roma si è rappresentata – perché lui è principalmente un autore di teatro musicale – l’opera da camera Liberté d’action (ne ha scritto Dino Villatico sul manifesto del 27 settembre). E ora esce su etichetta Ecm un lavoro per grande orchestra intitolato A House of Call. La grande orchestra è quella dell’Ensemble Modern ampliato, un cenacolo di innovatori e liberi pensatori con il quale Goebbels collabora strettamente da decenni. Questa compagine interpreta una partitura totalmente a firma Goebbels per l’ideazione, la concezione, il susseguirsi degli episodi. Però, le parti strumentali avvolgono o punteggiano materiali sonori registrati, musicali e non, delle più diverse origini.

Si va da un frammento di Boulez a uno di Heiner Müller, da canti popolari delle regioni del Caucaso a canti del popolo Nama (registrati da uno «scienziato del fonografo» colonialista e razzista ma trasformati dagli esecutori in canti di resistenza e sovversione), da poemi amazzonici a uno degli ultimi testi di Samuel Beckett. Le parti orchestrali per così dire autonome, astratte ma non tanto perché qui siamo in presenza di una sorta di storia della parola che diventa suono e viceversa, sono in prevalenza di tono avant-garde estremo, compreso un magnifico episodio che ricorda la Globe Unity Orchestra, quella dei radicali della free improvisation. Ma le emozioni suscitate da questa «casa dei richiami e delle trasformazioni» si provano anche nel trattamento di tante parti di testo, come quella corale (su Beckett) del finale, dove la lettura si fa recitativo e poi melodia.